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 2014  luglio 29 Martedì calendario

QUESTI PRESIDENTI NON SI POSSONO CONSIDERARE CLASSE DIRIGENTE

Eppure la colpa mica è di Tavecchio. Lui è quello che è, non nasconde nulla di sé. Un signore un po’ avanti con gli anni e molto indietro con la capacità di esprimere qualcosa di decente, un tizio abituato a gestire un potere fatto di intrighetti, promesse, pacche sulle spalle, affarucci e affaroni, sguazzando felice in un grande mare di mediocrità. Eppure la colpa non è sua, così maldestro da essere se stesso anche nel momento sbagliato, quando avrebbe dovuto provare a vestire i panni di qualcun altro, il dirigente maturo e saggio e prudente e silenzioso. Invece Tavecchio è questo, quindi ha parlato, ha detto quel che ha detto, si è rovinato. La colpa, dunque, è solo di chi in queste lunghe settimane di pietose trattative, aveva scelto proprio uno così, un Tavecchio, come uomo del destino e del futuro. È nella decisione ponderata e risoluta di sostenere uno così che si racchiude tutto il senso del declino del calcio italiano. È lì che va cercata la colpa. Nei piccoli e miserabili interessi di bottega che hanno spinto i presidenti delle squadre di calcio, prima quelli della serie B, poi quelli della serie A, ad accordarsi per sostenere il niente rappresentato da Tavecchio. È negli accordi sulle tante fette da spartirsi, sugli equilibri di potere, sulle quote di territorio destinate agli uni o agli altri: tu mi dai i tuoi voti della serie B per essere eletto e io, Tavecchio Carlo, ti garantisco che la mutualità, i contributi per la tua Lega, non saranno toccati. Tu mi dai i tuoi pochi ma pesanti voti della serie A e io, Tavecchio Carlo, ti garantisco che la Figc farà gli interessi dei grandi e dei piccoli club, offrendo soldi a chi retrocede e poltrone a chi galleggia in mezzo, regole meno fastidiose per chi vuole fare affari con il mercato e sanzioni meno pesanti per chi ha tifosi che fanno cori razzisti, o magari, ironia del destino, tirano banane in campo.
È nel vuoto di vedute che va cercata la colpa, nella mancanza di un orizzonte, di un pensiero, di un’idea comune. È in una classe dirigente che nello sport non esiste: possiamo considerare classe dirigente i nostri presidenti del calcio? Davvero c’è qualcuno che lo pensa? Non è neppure il loro compito, loro sono proprietari di aziende, a volte personaggi folcloristici, spesso gente indaffarata in altre faccende. Il problema, però, è che persone che misurano la propria importanza dal numero di telefonini con cui lavorano o dalla collezione di allenatori licenziati, sono deputate a selezionarla, la classe dirigente. Sono loro, i presidenti, a scegliere i Tavecchio, gli Abete, i Beretta. Li scelgono, in cambio di promesse, di favori, di piccole convenienze del momento. Poi tornano ai loro affari, che peraltro vanno sempre peggio. Intanto i Tavecchio governano. Mica è tanto difficile, in fondo, capire perché il calcio è ridotto così. Mica è tanto difficile capire di chi è la colpa. Mica è tanto azzardato dire che il capolinea è arrivato, e ora bisogna scendere.
Aligi Pontani, la Repubblica 29/7/2014