Renzo Guolo, la Repubblica 29/7/2014, 29 luglio 2014
IL CAOS LIBICO E LE SOLUZIONI CHE MANCANO
A tre anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia è un buco nero. E, peggio ancora, nessuno, dentro e fuori il paese, sembra in grado di proporre, o imporre, una soluzione che garantisca stabilità. L’evacuazione delle ambasciate occidentali, con l’eccezione non casuale di quella italiana; così come l’invito ai cittadini europei, ma anche a turchi e filippini, a lasciare quello che un tempo era il regno del Colonnello, sottolinea la gravità della crisi.
La Libia appare uno Stato fallito. Cos’altro può essere uno Stato che non riesce a esercitare il legittimo monopolio della forza e garantire sicurezza ai propri cittadini, ai residenti, ai diplomatici, mentre bande e milizie, se ne contano oltre millesettecento, si disputano il potere armi in pugno? Anche vi fosse un vincitore evidente, quello che emerge è la mancanza di un collante capace di saldare i mille particolarismi, ideologici, etnici, tribali, clanici, della scena.
Il paese è attraversato da più fratture: quella ideologica e politica, tra islamisti e conservatori nazionalisti; quella tra centro e periferia che contrappone non solo Tripolitania e Cirenaica ma anche il Fezzan alle altre due province; quella tra clan locali e potentati nazionali, per il controllo delle risorse petrolifere. Il tutto mentre il saccheggio dell’arsenale di Gheddafi ha messo in circolazione armi.
Il conflitto è evidente nello scontro tra le milizie di Zintan e di Misurata per il controllo dell’aeroporto della capitale. Nella battaglia si confrontano non solo realtà locali con armamenti pesanti, ma anche uno schieramento favorevole al debole governo centrale e uno nel quale sono presenti anche i Fratelli Musulmani, decisi a non farsi spazzare via dal Nordafrica dopo la débâcle egiziana e tunisina. Lo scontro tra fazioni islamiste e non islamiste investe anche la Cirenaica dove il discusso ex-generale Haftar ha cercato, con l’appoggio del debole esercito regolare, e il consenso di ambienti americani, di saldare i conti con la Shura di Bengasi. In un contesto, quello della Barqua, nome arabo della regione, nel quale proliferano i radicali jihadisti di Ansar al Sharia. Un intervento, quello di Hafter, percepito anche dai non islamisti come l’ennesimo tentativo di ripristinare il centralismo tripolino.
Vi è poi la partita del petrolio, la cui produzione è scesa drasticamente. Le milizie locali e tribali vogliono negoziare con le compagnie petrolifere il pagamento delle royalties o ambiscono al controllo dei terminal. Così nel paese che naviga sul greggio, mancano gasolio e carburante, oltre che elettricità.
In questo caos non emergono schieramenti in grado di esercitare egemonia. Troppo frammentate le forze in campo, anche quelle “liberali” che pure hanno vinto diverse elezioni, da ultime quelle del 25 maggio. Qualcuno invoca un al Sissi libico, ma non è realistico. Contrariamente all’Egitto, dove le forze armate esprimono oltre che un leader anche interessi di larga parte della società, e dunque un blocco sociale, la Libia non dispone di una simile risorsa d’ordine di riserva. Gheddafi, che pure proveniva dall’esercito, ha dissolto il potere militare, nel timore che i suoi ex-commilitoni potessero ripetere, questa volta contro di lui, il golpe del 1969. La Repubblica gheddafiana è già l’anticamera della dissoluzione dello Stato divenuta evidente in questi tre anni.
La soluzione sembrerebbe, così, solo esterna. Ma il precedente del rovesciamento di Gheddafi non incoraggia alcun intervento di peaceenforcing sotto il cappello Onu. Anche se una decisione va presa rapidamente. L’Italia, in particolare, ha interesse alla stabilità libica. Siamo il più grande partner commerciale del paese, dal quale importiamo ingenti risorse energetiche, tanto più necessarie dopo il raffreddarsi dei rapporti con la Russia; ma la Libia è decisiva anche per il controllo dei flussi migratori che provengono dall’area subsahariana e mediorientale. Inoltre, la crisi nella Sirte pone problemi di sicurezza, connessi al terrorismo jihadista. Per questo l’Italia cerca di evitare che la Libia sia lasciata a sé stessa. Da sola, però, Roma non può farcela. Prima che sia troppo tardi, urge un’assunzione di responsabilità collettiva di Unione Europea, Usa e Onu che, purtroppo, appare ancora lontana.
Renzo Guolo, la Repubblica 29/7/2014