Paolo Tomaselli, Corriere della Sera 29/7/2014, 29 luglio 2014
IL RE DEI CAMPI SINTETICI CHE RIESCE A DRIBBLARE GAFFE E ACCUSE
Ci vuole poco per annusare l’aria: passata la bufera estiva, torneranno quasi tutti amici come prima. Basta resistere qualche altro giorno e Carlo Tavecchio sarà presidente della Federcalcio. La clamorosa buccia di banana su cui è scivolato finirà nell’immondizia: qualcuno magari se ne ricorderà di fronte ai primi buu razzisti, alle curve chiuse o alle banane lanciate in campo. Ma durerà poco. L’eloquio, inadeguato al ruolo che il candidato dovrà occupare, diventerà fonte di altri aneddoti e di qualche sorrisetto. Il nuovo commissario tecnico della nazionale si prenderà le prime pagine, oneri e onori del prossimo biennio: perché tra due anni si rivota e governare con un respiro così breve è difficile per chiunque. Anche se Tavecchio, ragioniere ed ex dirigente di banca, sindaco dc per quattro mandati e 19 anni di Ponte Lambro (Como), aveva preso la Lega Dilettanti nel 1999 con un solo anno di mandato davanti: è ancora lì, a capo dell’impero da lui stesso costruito e che garantisce la più ampia fetta di voti (34%), con 15mila società, 700mila partite l’anno e l’enorme business dei campi sintetici. «Un vezzo», come lo chiama lui, che ha riempito il Paese di strutture dai costi elevati, facendo la fortuna, in parti rigorosamente eguali, dei tre principali marchi produttori: sulla qualità dei campi si può discutere, ma chi ha insinuato conflitti di interesse è stato querelato. Senza contare che quindici anni fa una decisione della Corte Federale, interrogata dallo stesso Tavecchio, aveva stabilito che il candidato alla Lnd era eleggibile: condannato in passato per piccoli reati fiscali, il dirigente 71enne ha ottenuto la riabilitazione (articolo 178 del Codice penale) e come sottolinea oggi ha «un certificato penale immacolato». La strada per la presidenza Figc, per quanto tortuosa e con qualche banco di nebbia, è dunque spianata.
«Mi sono ritrovato più importante di Sua Santità, della guerra in Palestina e del Tour de France e non ero abituato a tutto questo. Imparerò — ha detto ieri il candidato Tavecchio sotto i riflettori di Sky — . Ho fatto un’uscita infelice, ho sbagliato e ho chiesto scusa dieci volte. Poche persone, lo dico con arroganza, hanno fatto quello che ho fatto io per il terzo mondo. Sono stato in Africa a fare squadre e campi di calcio. Diecimila persone extracomunitarie giocano nel campionato dilettantistico, questo è un fatto».
Parla tanto Tavecchio e spesso, come certi lombardi «uomini del fare», straparla. Ieri Radio24 ha proposto il colloquio con un finto Luciano Moggi nel classico scherzo telefonico della «Zanzara». Tavecchio ha abboccato, chiacchierando con un soggetto radiato, suo amico di vecchia data. Ma anche questo particolare verrà presto dimenticato. Del resto nel gennaio 2010, quando Moggi era «solo» squalificato e non ancora radiato, l’amico Carlo aveva espresso il suo pensiero, quasi un piccolo manifesto: «In Italia si liberano gli ergastolani, figuriamoci se non può tornare Moggi nel calcio. Non in Figc, ma nei club potrà fare quello che vuole». Il giorno dopo sono arrivate le giustificazioni: «Non ho mai espresso nostalgia per alcuno, tantomeno per il signor Moggi. Nelle mie parole al contrario si celava un’amara presa di coscienza di carattere generale». Un po’ come quella di Enrico Preziosi, presidente del Genoa: «La frase di Tavecchio sulle banane è grave, ma strumentalizzare così non va bene. In politica, ministri e presidenti hanno fatto uscite e scivolate e sono rimasti tutti lì. Abbiamo designato un candidato e resta quello». Tié.
Nella frase su Opti Pobà, grottesco nome di fantasia che ha fatto il giro del mondo, Tavecchio citava la Lazio, del suo principale sostenitore Claudio Lotito. Con i biancocelesti gioca il camerunense Minala, che sul sito della società ieri ha difeso il candidato forte alla Figc: «Non ho alcun motivo di sentirmi offeso dalle parole di Tavecchio, che ritengo usate a chissà quali fini, poiché se devo qualcosa a qualcuno è proprio a Carlo Tavecchio». Addirittura. Ma chi intravvede una strana coincidenza nella accorata difesa del giovane dipendente di Lotito è ovviamente in malafede, perché la storia di Joseph non è stata semplice: «Io so cosa significa venire dall’Africa con la speranza di diventare un grande calciatore. So cosa significa essere abbandonato a una stazione da un procuratore senza scrupoli con tante false promesse. Quando per mia fortuna mi trasferirono poi alla Città dei Ragazzi fu proprio Tavecchio ad inserirmi nel circuito calcistico dandomi modo di testare le mie capacità con i dilettanti. In poco tempo, appena 8 mesi, sono approdato in Primavera e poi in serie A, realizzando il mio più grande sogno. Mi sembrano dunque inopportune e pretestuose le polemiche sollevate in queste ore». Avanti, allora. Gli ombrelli del calcio italiano possono resistere a qualsiasi tempesta.