Christiane Gelitz, Mente & Cervello 8/2014, 29 luglio 2014
BIOLOGIA DELLA FEDELT
Chiunque si sia appena innamorato appare trasformato, e non ha occhi che per il partner. Ma perché tutto ciò duri nel tempo occorre che l’amore lasci il segno anche nei geni: è il caso dell’arvicola delle praterie [Microtus ochrogaster]. Questo studiatissimo roditore vive nel Midwest degli Stati Uniti. Maschi e femmine restano per sempre fedeli dopo il primo accoppiamento, contrariamente alle loro «cugine», le arvicole montane (Microtus montanus).
Il merito della vita sessuale più o meno monotona di questi animali è della quantità di recettori presenti all’interno del nucleo accumbens, una struttura del sistema di ricompensa cerebrale. A legarsi a questi recettori sono due sostanze: l’ormone ossitocina che, nell’uomo e nel topo, aumenta la propria concentrazione sanguigna dopo un rapporto sessuale, e la vasopressina, un neurotrasmettitore simile all’adrenalina che agisce da vasocostrittore e contribuisce alla difesa del nido o del territorio. Somministrando alle arvicole poligamo una certa quantità di entrambi gli ormoni, queste diventano monogame, come le «cugine» delle praterie. Mentre bloccando i recettori corrispondenti di queste ultime, esse cambiano partner con la stessa frequenza delle loro parenti più «promiscue».
Un team coordinato dal neuroscienziato Mohamed Kabbaj, della Florida State University a Tallahassee, ha cercato di individuare le radici biologiche della fedeltà per tutta la vita. I ricercatori hanno lasciato che, in un gruppo di arvicole delle praterie, la natura facesse il suo corso: dopo circa 24 ore passate in prossimità, i maschi e le femmine sono pronti per l’accoppiamento e dopo l’atto sessuale, grazie alla produzione di ossitocina, si legano l’uno all’altro per tutta la vita.
A un altro gruppo di arvicole delle praterie i ricercatori hanno dato invece soltanto sei ore di tempo per conoscersi, poi hanno iniettato ai roditori una «pozione d’amore», l’antibiotico tricostatina A, nei pressi del nucleo accumbens. La sostanza ha modificato il DNA provocando lo stesso effetto che il rapporto sessuale ha sul comportamento degli animali: le femmine cercavano il contatto con i «partner» ogni volta che arrivava un altro maschio. Ciò, tuttavia, funzionava solo nelle coppie di roditori che avevano potuto «annusarsi» per parecchie ore. Negli animali che non si conoscevano la sostanza non aveva alcun effetto.
Il regno della biochimica
Chi volesse capire meglio il meccanismo che si nasconde dietro questo particolare fenomeno dovrebbe addentrarsi un po’ di più nel regno della biochimica. In ogni cellula il DNA si attorciglia intorno ai cosiddetti istoni, proteine che impediscono la lettura di determinati geni.
Quando maschi e femmine stabiliscono un contatto, i gruppi acetile si legano agli istoni e allentano così il DNA. A questo punto i geni, per esempio quelli dei recettori dell’ossitocina e della vasopressina, possono essere letti in misura maggiore, e il numero di recettori aumenta. I centri della ricompensa delle femmine di arvicola delle praterie sono quindi disseminati di recettori per l’ossitocina. Nei maschi la situazione è simile, senza contare che questi hanno anche un numero maggiore di recettori per la vasopressina rispetto ai cervelli dei maschi di arvicola montana.
In questo modo i ricercatori sono riusciti a dimostrare che i contatti sessuali modificano l’attività di geni che, a loro volta, determinano le differenze nei livelli di ossitocina e nel comportamento. La modificazione dura per tutta la vita, anche se stiamo parlando di animali che hanno una vita media di circa due anni. A determinare la vita amorosa più variegata delle «cugine» montane sono, a quanto pare, altre varianti geniche, in cui non interviene il meccanismo epigenetico.
L’ormone dell’amore frena i flirt
Le storie d’amore umane, naturalmente, non dipendono solo da fattori biologici. Tuttavia l’ormone dell’amore, l’ossitocina, ha una sua importanza anche per quanto riguarda la fedeltà tra esseri umani.
Il sesso e le carezze possono stimolare la sua produzione. L’ormone rafforza il legame con il partner, addirittura quando non c’è e quando l’ormone viene somministrato artificialmente, come ha dimostrato un esperimento condotto nel 2012 da alcuni ricercatori guidati da René Hurlemann, dell’Università di Bonn. In base allo studio di Hurlemann, gli uomini sposati manterrebbero un maggiore distacco nei confronti di donne seducenti poco dopo che a questi era stato somministrato, a loro insaputa, uno spray nasale a base di ossitocina. Nei single invece questo effetto non si produceva.
Ma non tutti i fattori biologici legati alla fedeltà possono essere influenzati. La capacità di un uomo di mantenere un rapporto esclusivo dipende anche dai geni.
I ricercatori dello svedese Karolinska Institut hanno analizzato, su 552 coppie di gemelli e sui loro partner, determinati geni vicini a quello che codifica i recettori per la vasopressina. I maschi con la variante genica 334, che rappresentavano il 40 per cento dei partecipanti allo studio, avevano rapporti meno soddisfacenti rispetto agli altri. Erano più spesso single o separati e, tra quelli che avevano una partner, un terzo giudicava negativamente il rapporto, una percentuale più che doppia rispetto ai maschi privi della variante genica in questione.
Nell’uomo, la fedeltà al partner è ovviamente molto più complicata di quanto non sia tra le arvicole: un unico gene o addirittura uno spray nasale possono influire solo limitatamente. La storia personale, la situazione, l’ambiente: sono questi i fattori che possono spingere i nostri partner ad abbandonare il sentiero della fedeltà. Tra il 99 per cento di patrimonio genetico che uomo e topo condividono ci saranno senz’altro anche i geni che influenzano i legami e la fedeltà. Ma l’arvicola che è ciascuno di noi è quella montana o quella delle praterie?