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 2014  luglio 26 Sabato calendario

IL TITOLO CHE FA GUADAGNARE INVESTENDO NEL PROGRESSO SOCIALE


Li chiamano social impact bond o pay for success bond. Sono degli strumenti finanziari attraverso i quali un ente pubblico raccoglie fondi da parte di investitori privati, destinandoli al raggiungimento di un obiettivo sociale, come l’abbassamento del tasso di recidiva tra i carcerati o la diminuzione della disoccupazione trai giovani. E in base al successo rispetto al fine prescelto, il capitale investito sarà remunerato a tasso variabile.
I vantaggi dei social impact bond (Sib) sono molteplici. Se il progetto si conclude raggiungendo il risultato prefissato, la pubblica amministrazione riesce a risparmiare su quella voce del welfare e può usare parte dei fondi per restituire capitale e interessi ai risparmiatori che hanno sottoscritto le obbligazioni. Oltre ai beneficiari dell’iniziativa, il lancio di un Sib comporta una ricaduta positiva per tutti coloro che attraverso uno o più enti no profit coinvolti partecipano alla sua realizzazione. E ne trae giovamento l’insieme della collettività, che oltre alla riduzione della spesa pubblica, gode anche dell’utilità sociale generata in questo modo.
Uno dei primi esperimenti relativi a questo strumento di finanza locale, è stato fatto nel Regno Unito dove, nel marzo 2010, è stato emesso un Sib a tasso variabile della durata di sei anni destinato a finanziare un progetto per il recupero di circa tremila detenuti a Peterborough, nell’est dell’Inghilterra. La durata del prestito è motivata dal fatto che l’ente no profit deve avere il tempo di creare, se necessario, le strutture per i percorsi di riabilitazione e sperimentare poi diverse soluzioni per poterne valutare l’efficacia. D’altra parte, va considerato che ciò è possibile anche grazie al fatto che molto probabilmente i risparmiatori che aderiscono sono anche motivati dalla finalità sociale e dunque disponibili a impiegare i propri soldi per un periodo così lungo. Sul fronte pubblico, invece, il finanziamento attraverso un Sib permette di evitare che un cambio di orientamento dell’amministrazione oppure una fase di congiuntura economica negativa possano causare un taglio delle risorse, interrompendo il progetto.
Nello specifico, l’obiettivo a monte del Sib di Peterborough è ridurre il tasso di carcerati (almeno del 7,5 %) che tornano a delinquere dopo aver finito di scontare la pena. Se l’esito sarà positivo, gli investitori si vedranno restituire il capitale e un interesse più o meno elevato in base a quanto il programmasi è avvicinato al target fissato.
Altri esperimenti di questo tipo sono stati promossi anche negli Stati Uniti, a New York e nel Massachusetts, mentre il Belgio ha lanciato uno dei primi Sib dell’Europa continentale.
«Si tratta fondamentalmente del trasferimento del rischio dal pubblico al privato – afferma Stefano Gurciullo, membro della Global Shapers Communty di Roma e del Comitato promotore per l’introduzione dei social impact bond in Italia – focalizzato su progetti che hanno un forte carattere di prevenzione sotto il punto di vista sociale».
In particolare, nello schema sperimentato finora nei Paesi anglossassoni, sono coinvolti quattro attori: i privati che scelgono di investire in questi titoli; gli enti pubblici, in genere organi locali come potrebbero essere le nostre Regioni, che hanno un radicamento nel territorio in grado di consentire loro la scelta e la gestione di un progetto rilevante rispetto a una certa comunità; il settore no profit a cui compete la realizzazione del progetto; infine, un intermediario – nel caso inglese si tratta di una società denominata Social Finance – che propone il bond facendo incontrare pubblico e privato, mentre la misura in base alla quale l’investimento sarà o meno remunerato è generalmente determinata da un ente di consulenza indipendente. Particolarmente importante, poi, è la misurazione dei risultati e la buona comunicazione tra tutte le parti coinvolte per monitorare come si sta evolvendo il progetto e quali sono i fattori che ne stanno determinando la direzione.
L’inserimento nel nostro ordinamento, però, non è immediato: «In Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si tratta in sintesi di un contratto tra privati – spiega Gurciullo – mentre da noi sarà necessario provvedere a un regolamento da parte degli enti di regolamentazione, cioè Consob e Banca d’Italia. Altro aspetto che rappresenta ancora un’area grigia è l’individuazione del soggetto del Terzo settore che realizza il progetto. Mentre all’estero l’assegnazione è fatta in modo diretto, da noi è ancora da capire qual è la via da percorrere, ossia se occorre l’emanazione di un bando da parte dell’ente pubblico e se quindi serve anche un adeguamento delle norme in merito».
Un ulteriore nodo, secondo Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica che da 15 anni fonda tutta la propria attività sulle finalità sociali, sta proprio nell’organizzazione degli enti pubblici: «Premesso che se c’è la volontà del legislatore e si individuano specifici capitoli di spesa del settore welfare a livello regionale nei quali è possibile effettuare questa iniezione di efficienza, a mio avviso, l’operazione è fattibile, ciò che mi preoccupa maggiormente è che la nostra pubblica amministrazione ha difficoltà nella capacità di misura in termini di bilancio e poi a livello organizzativo». Altra perplessità, quella relativa alla mentalità dominante: «Credo che in Italia manchi ancora la logica che sta dietro all’esperimento anglosassone – riflette Biggeri – perché, almeno sulla base della nostra esperienza, sono i singoli a interessarsi alla finalità sociale dell’investimento, più che gli intermediari istituzionali».
Oltre alla necessità di mettere in rete i diversi soggetti, attività dell’esito non scontato, si pongono anche altre questioni, come la scelta della tipologia di progetto in cui investire. «Il caso dei carcerati – afferma Leonardo Becchetti, professore di economia all’Università Tor Vergata di Roma è l’ambito ideale perché i costi sostenuti dalla pubblica amministrazione sono chiaramente misurabili, così come si può misurare con precisione anche l’impatto dell’azione portata avanti dall’ente del Terzo settore. Va però tenuto presente che per poter valutare l’effetto, devono essere fatti studi per verificare quali risultati possono essere ottenuti nei diversi ambiti e questo pone una questione relativa al fatto che, considerato anche che le risorse sono limitate, la scelta potrebbe finire per ricadere sempre sullo stesso tipo di interventi, trascurando invece gli ambiti in cui è più problematico misurare l’efficacia del risultato».
Altro capitolo la liquidità dei bond: fino a che punto queste obbligazioni possono essere, come accade per altri titoli, rivendute sul mercato? «Se si pongono dei limiti spiega Becchetti questo potrebbe limitare l’appetibilità dell’investimento per i risparmiatori, ma in condizioni opposte ci sarebbero i problemi tipici dei mercati finanziari, come la volatilità e il rischio di speculazioni».
Il panorama dell’economia mondiale comunque sembra inviare segnali promettenti per la finanza sociale, conclude Becchetti: «La crisi ha determinato un cambio di paradigma e oggi i dati ci dicono che il 24,8% delle attività finanziarie hanno un occhio di riguardo per le ricadute ambientali e sociali, così come il 15 % dei prodotti venduti nei supermercati sono green. Insomma, sta diventando sempre più chiaro che l’attenzione per il bene comune è un reale interesse di tutti».