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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

STRINGI I DENTI E VAI


Salto (Uruguay). Sergio Suárez, El Chango, come tutti lo conoscono, vive nel Barrio El Cerro in una strada sterrata fatta di case a un piano, umili, ma dignitose. Quando bussi alla porta la moglie dice che è al lavoro, ritornerà verso mezzogiorno. È puntuale El Chango. Si accomoda in salotto e con la tuta blu da falegname inizia a raccontare di suo nipote: Luis Suárez, il Pistolero, il Cannibale. Sì proprio colui che ha lasciato i denti sulla spalla di Giorgio Chiellini in quel fatale Italia-Uruguay.
A voce bassa El Chango parla del bambino che cominciò ad allenare quando aveva quattro anni. È stato lui a insegnare al Cabezón (così lo chiamavano in famiglia per la testa grande e piena di riccioli ) come si tirano calci a un pallone. «Com’era allora?» ride Sergio, «Era esattamente com’è adesso. Per lui il fútbol era tutto. Si alzava con il pallone e andava a letto con il pallone. Passava il tempo a giocare in strada. All’inizio era maldestro con la pelota, ma andava su tutte le palle. Voleva vincere. Voleva fare gol, sempre, a tutti i costi. Proprio come adesso». Siamo a Salto, nord est dell’Uruguay, 498 chilometri da Montevideo, 20 minuti per arrivare in Argentina; 104 mila abitanti, la seconda città più popolosa della Republica Oriental del Uruguay. È qui che è nato, ventisette anni fa, Luis Suárez, quarto di sei figli. Rodolfo. il padre, è militare e calciatore dilettante, Sandra, la madre, casalinga. È a Salto, nei saloni del baby fútbol con la maglia del Deportivo Antigas, il club del battaglione di fanteria 7 Ituzaingó, che Lucho prende confidenza con il pallone e con gli avversari fra i quali c’è un tal Edinson Cavani, l’ex del Palermo e del Napoli. Quando Luis ha sette anni tutta la famiglia si trasferisce a Montevideo. Dalla provincia alla capitale alla ricerca di un’occasione di vita. Il padre lascia l’esercito e trova impiego in una fabbrica di biscotti, la madre fa le pulizie nel terminal degli autobus. Luis va a scuola e gioca nell’Urreta F.C. una squadra del quartiere. Si fa notare e passa al vivaio del Nacional, insieme al Peñarol l’istituzione per eccellenza del fútbol uruguagio.
Fuori dal rettangolo verde, però le cose per Luis non vanno bene. I suoi genitori si separano. Sandra si fa carico dei sei ragazzi. Sono tempi bui. Soldi in casa se ne vedono pochi, per settimane c’è sempre la stessa cosa da mangiare: riso e salcicce. Luis, Maxi e Diego, i più piccoli della famiglia, sono obbligati a crescere in fretta. Forse troppo. Tanto che a 14 anni qualcosa va storto e fa deragliare il ragazzo di Salto. La separazione dei genitori che pesa come un macigno? L’adolescenza che mette un’infinità di grilli in testa? Altri interessi, il ballo, le discoteche le uscite notturne?
C’è un po’ di tutto nella crisi che attraversa Luis. Quel che è certo è che il calcio non gli interessa più tanto. Nelle giovanili del Nacional ormai trova posto solo in panchina. Il suo rendimento è calato, ha poca voglia di allenarsi, si comporta come non dovrebbe. Stupidaggini da ragazzini che non piacciono ai dirigenti del club. Vogliono buttarlo fuori. Per fortuna trova chi lo rimette in carreggiata nel calcio e nella vita. Wilson Píriz e José Luis Espósito, allora funzionari del Nacional intercedono per il ragazzo e gli fanno una lavata di capo. «Gli dissi» racconta Píriz, «che doveva indirizzare la sua vita, sia sportivamente sia umanamente, e mettersi a lavorare, seriamente, per diventare un professionista del calcio. Lui capì e prese al volo quella seconda opportunità». Nella vita, a dargli l’affetto, la sicurezza, l’equilibrio è Sofia, la sua fidanzatina, oggi sua moglie e madre dei loro due figli: Delfina e Benjamin. I due si conoscono quando lei ha 12 anni e lui 15. È solo una ragazzina, Sofia Balbi, ma è molto matura. A Luis dice: mettiti a studiare e lui le dà retta. Gli dice: tu puoi farcela a diventare un calciatore e lui si mette ad allenarsi e a segnare come non mai. Salta da una categoria all’altra e a 19 anni debutta con la prima
squadra del Nacional.
Ci spostiamo al Bar Arocena di Montevideo per incontrare Ruben Sosa, pizzetto sale e pepe, qualche capello di meno e qualche chilo di più, ricorda quando El Pistolero cresceva nel Nacional. L’ex attaccante di Lazio e Inter è stato un idolo per Suárez e lo ha allenato per qualche tempo quando passò in prima squadra. «Tutti sapevamo che era uno capace di fare sfracelli non tanto perché avesse una grande tecnica, non ce l’ha nemmeno adesso, ma per l’incredibile voglia di vincere. Quanto a classe, non era certo un mostro. Cadeva, scivolava, quando calciava si portava via una zolla del campo. Sbagliava un gol a porta vuota e poi ne faceva uno da un angolo impossibile. Nelle prime partite con il Nacional si mangiò qualcosa come dodici occasioni. Preso dall’ansia per il gol non riusciva a buttarla dentro e la gente lo fischiava. Ma le urla, gli insulti, non gli importavano, voleva fare il calciatore, voleva giocare nel Nacional e, alla fine, con un grande sacrificio ci riuscì. Molti non avrebbero scommesso dieci dollari su quel ragazzo e invece... guarda dov’è arrivato. Il suo non è un calcio delizioso, Luis non è un Messi, il suo è il calcio di un goleador che, ovunque vada, ne segna a caterve».
Dopo una stagione al Nacional Suárez vola in Olanda al Groningen, squadra di mezza classifica della Eredivisie, la prima divisione. Ci va perché vuol giocare in Europa e vuol essere più vicino a Sofia che si è trasferita con tutta la famiglia a Barcellona. In una stagione conquista i tifosi dell’armata verde e bianca, poi passa all’Ajax. Sarà capitano e capocannoniere dei Lancieri. Cento gol in appena tre anni. E proprio nell’Amsterdam Arena il 20 novembre 2010 cade in tentazione per la prima volta. La vittima, Otman Bakkal, l’attaccante del PSV, azzannato alla base del collo. L’indomani De Telegraaf titola: Il cannibale dell’Ajax. La leggenda è cominciata.
Herman Pinkster fa parte dello staff dell’Ajax, è l’uomo che, nel club olandese, è stato più vicino a Suárez. A De Toekomst, il centro di allenamento, racconta : «Ci sono due Luis, quello fuori dal campo e quello dentro il campo. Fuori è una persona amabile, gentile, discreta, tranquilla. Sul terreno di gioco è nervoso, teso, stressato, arrabbiato. E come se in lui coesistessero Doctor Jekyll e Mister Hyde. Perché? Perché vive il calcio in maniera passionale, intensa. È un guerriero che vuol sempre vincere a ogni costo, in ogni modo. Ha il sangue caldo, qualche volta gli va alla testa e lo porta a fare cose di cui poi si pente. Come quel morso a Bakkal».
Un morso che gli costò sette giornate fuori dal campo e il trasferimento al Liverpool per 26,5 milioni di euro. Con i Reds Suárez accumula gol, critiche e squalifiche. 15 ottobre 2011: Liverpool-Manchester United: Patrice Evra, il difensore francese dello United, lo accusa di insulti razzisti. Luis nega, ma la Football Association lo condanna: otto giornate di squalifica.
21 aprile 2013, ad Anfield si gioca Liverpool-Chelsea e il Cannibale ricasca nel suo vizietto: morde Branislav Ivanovic, il numero 2 dei Blues. Chiede scusa per il suo comportamento imperdonabile, come aveva fatto con Bakkal. Niente da fare: gli piove addosso di tutto, compresi gli strali di David Cameron, il primo ministro britannico. E sono dieci giornate di squalifica.
Ritorna in campo nella stagione 20132014 e risorge. Porta il Liverpool a un soffio dalla vittoria in campionato, è il capocannoniere della Premier, viene eletto come miglior calciatore e conquista la scarpa d’oro 2014 a pari gol (31) con Cristiano Ronaldo.
C’è il Mondiale e l’Uruguay confida nel suo eroe. Il numero 9 che portò la Celeste alle semifinali nella Coppa del Mondo sudafricana, il miglior giocatore della Coppa America 2011, l’attaccante che detiene il record di gol con la maglia della nazionale. Mancano solo 23 giorni al debutto in Brasile e il Pistolero s’infortuna, artroscopia d’urgenza. La Repubblica Oriental si trasforma nella Repubblica del Menisco. I 3 milioni e 300 mila uruguaiani vivono con il fiato sospeso sperando che Lucho possa giocare. Ritorna contro l’Inghilterra e con due gol fa fuori la Perfida Albione.
È il Santo, è Superman, è il Libertador: le iperbole si sprecano. E siamo all’ultimo morso, quello a Giorgio Chiellini, e alla squalifica più dura che sia mai vista in un mondiale: 4 mesi di esilio dal calcio. Un Paese intero lo difende. Pepe Mujica, il presidente, dice: «Non pretendiamo che Suárez faccia il filosofo o si comporti come un lord». E si lascia scappare: «La Fifa è una banda di vecchi figli di puttana. È giusto che puniscano, ma non che infliggano sanzioni fasciste».
Intanto a Pere, il suo agente, e fratello di Pep Guardiola, è riuscito il colpaccio: Lucho è passato al Barcellona, con un contratto di 5 anni. E per 81 milioni. Anche se, come nel caso di Neymar, sulle cifre si discuterà ancora a lungo. Ma intanto il Pistolero ha realizzato il suo vecchio sogno. E i tifosi blaugrana quando potranno rivederlo in campo? In attesa della sentenza del Tribunale Arbitrale, data probabile fine ottobre.