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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

COSÌ A TORINO NACQUE IL MIRACOLO ITALIANO CHIAMATO INDESIT CHE ITALIANO NON È PIÙ


Torino. La spirea è una pianta delle rosacee originaria del SudEst asiatico che difficilmente potrebbe fiorire al sole del 45° parallelo di Torino e dintorni. Eppure, per una qualche ragione che può aver avuto a che fare con ricordi di viaggi, letture o vai a sapere che cos’altro, loro decisero di chiamare Spirea quella che poi sarebbe diventata la Indesit, ovvero delle aziende storiche del made in Italy, da poco finita sotto l’ombrello dell’americana Whirlpool. Loro erano Armando Campioni, Adelchi Candellero e Filippo Gatta, imprenditori di una razza estinta, e l’Italia in cui partirono verso un’avventura durata un sessantennio era quella che stava per imboccare gli anni ruggenti del boom economico: per dimenticare la miseria del dopoguerra ed entrare nel club che non era quello dei ricchi del Pianeta o, allora, dell’Europa, ma quello di chi non voleva restare tra i poveri.
C’è un mix di fantasia e di coraggio in questo incipit.
La fantasia di un nome e il coraggio di chi decide di mettere in piedi un’azienda per produrre elettrodomestici bianchi, che poi vuol dire frigoriferi, lavatrici, congelatori, lavatrici, cucine, oltre che televisori e registratori di cassa, quando mancano ancora quattro anni all’esordio di Carosello nella televisione in bianco e nero. Tutta roba che sinora si è vista nei film americani e che gli italiani sognano quasi quanto le «mille lire al mese» cantate nel ’39 da Gilberto Mazzi. Perché sono prodotti di lusso in un’Italia ancora terra di contadini e di emigranti che compra il ghiaccio da tritare per la granita al limone, usa il pibigas senza aver abbandonato la legna e il carbone, lava nella vasca e nel mastello e la televisione si prepara a vederla nei bar o a casa di un vicino fortunato.
È l’anno 1953, che le cronache rimandano come l’anno della Legge truffa, della fine dell’era De Gasperi, dall’ultima vittoria di Fausto Coppi al Giro d’Italia, del premio Oscar al film Vacanze romane di William Wyler con Gregory Peck e Audrey Hepburn. Ed è l’anno della creazione dell’Eni da parte di Enrico Mattei. Un operaio del ricco Biellese guadagna cento lire all’ora e le mondine immortalate in Riso amaro di Giuseppe De Santis non superano le 50. Produrre elettrodomestici su scala industriale è una scommessa, un rischio che i tre pionieri della Indesit decidono di affrontare perché avvertono che qualcosa sta rapidamente cambiando in un Paese che di lì a un paio d’anni comincerà a comprare la 500 e la 600.
I tre pionieri della Indesit stanno in quell’Italia, vicini di casa della Fiat che a Torino richiama migliaia di immigrati, una parte dei quali finisce alla Spirea che, dopo aver cambiato un paio di volte nome, trasformandosi in Indel e Indes, nel 1961 diventa Indesit. Da Torino il quartier generale si trasferisce verso None, Orbassano e Rivalta, hinterland industriale nel quale la Fiat costruirà il suo stabilimento più grande dopo Mirafiori.
Dal Piemonte al Sud, a Teverola e Carinaro, in provincia di Caserta, la Indesit si espande e ha successo nell’Italia che scopre e compra a rate i nuovi beni di consumo e tradisce il vecchio sarto per il prêt-àporter. Alla fine del decennio conta otto stabilimenti con 12 mila dipendenti ed esporta i suoi elettrodomestici, che sono anche belli perché ben disegnati, come buona parte dei prodotti industriali di quegli anni. Poi arrivano anche le acquisizioni, come il marchio Hirundo e la partecipazione con un 6 per cento alla Séleco di Pordenone, storica marchio dell’elettronica italiana, all’epoca in cui il controllo dell’azienda è in mano a Gian Mario Rossignolo, gran patron di Zanussi.
Questo tentativo di espansione di fatto segna l’inizio della fine del momento magico e, nell’80, la crisi porta diritto all’amministrazione controllata dalla quale Indesit esce quattro anni dopo, apparentemente salva ma di fatto indebolita. A nulla vale un aumento di capitale, finché nell’87 i Merloni di Fabriano mettono sul tavolo 50 miliardi di lire, più un pacchetto quasi doppio per il rilancio, e prendono tutto. Loro hanno cominciato come produttori di bilance e negli anni sono approdati agli elettrodomestici con il celebre marchio Ariston. Hanno fabbriche in Russia e Cina e Vittorio Merloni, che è stato anche, per quattro anni, presidente di Confindustria, è convinto che il matrimonio con il gruppo piemontese possa essere vincente. Tant’è che il gruppo di famiglia sceglie di adottare il nome dell’azienda acquisita. Si scommette sulla suggestione della storia, ma nel finale del «secolo breve» il mondo sta cambiando e la globalizzazione mostra il suo volto feroce, mentre cresce il canto delle sirene della delocalizzazione. E, come spesso accade in queste storie di famiglia, entra in campo anche qualche contrasto e diversità di vedute. Fino a quando, a cancellare quel pezzo di imprenditoria italiana nata nel Nord-Ovest ancora tanto vallettiano e salesiano, e tuttavia capace di inventarsi quel simbolo di benessere che è stato l’elettrodomestico, si fanno avanti gli americani della Whirlpool, convinti che in Italia si possono produrre ancora frigoriferi e lavastoviglie.
Fine della vicenda. Come in una dissolvenza cinematografica la storia Indesit è sfumata sull’orizzonte di quella dell’industria italiana. Il tempo di contare gli esuberi, che si dice sempre che non ci saranno, e preparare nuovi piani di rilancio, che ci sono sempre, e poi gli operai e le operaie non più giovani della Indesit resteranno a raccontare di quando Armando Campioni, Adelchi Candellero e Filippo Gatta in quel di Torino eccetera eccetera.