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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

COM’È ESOTICA L’UNIONE VISTA DA ORIENTE


Bruxelles. Nel moderno albergo a ridosso dei Palazzi dell’Unione europea concentrati nel nuovo quartiere nato sulle rovine di chiese e conventi seicenteschi, non posso accedere alla stanza perché il check-in è solo dalle 3 del pomeriggio in poi. Non si ammettono deroghe nemmeno se vieni dall’altra parte del mondo. A Bruxelles sono ancora le otto del mattino e le regole sono regole Inutile tentare di impietosire l’addetto alla reception dicendo che arrivi dalla Thailandia per un tuffo nella pacifica Europa dopo mesi e mesi di proteste di piazza e delitti politici tra grattacieli, sopraelevate e superstrade, oggi sotto il controllo dell’esercito golpista fedele al re. Non serve nemmeno garantirgli che in Asia un’attesa di sette ore sarebbe inconcepibile perché l’ospite è sacro e così via. In stanza non si entra.
Varco coi vestiti del viaggio il portone trasparente del primo palazzo dell’Unione e qui devo munirmi di un badge elettronico che apre un’altra porta a vetri e poi un’altra ancora, finché entro in una sala illuminata a giorno circondata di cabine per le traduzioni con le poltrone munite di microfoni e auricolari per tutti. Il riverbero con le voci degli interpreti nelle 24 lingue ufficiali dell’Unione sembra volermi avvertire subito della potenza di una nuova galassia che si espande ormai in maniera virtuale ben oltre ogni immaginabile confine terrestre tra i 28 Stati membri. Noto anche che tra queste pareti si conoscono tutti così bene che i portavoce dei commissari europei rispondono alle domande dei giornalisti chiamandoli per nome.
Salto, per curiosare in giro, i preliminari di questa conferenza diplomatica per addetti ai lavori, e tra le pile di comunicati sui tavoli qualcosa fa improvvisamente virare verso terra l’astronave Europa: si parla delle accuse delle lobby dei consumatori contro i produttori di funghi che hanno creato un’alleanza multinazionale per tenere alti i prezzi e bloccare le importazioni di quelli più economici dal Terzo Mondo. È solo un piccolo dettaglio di una delle tante operazioni che la burocrazia Ue può condurre a termine per il beneficio della massa di chi vive le conseguenze di certe scelte tecniche. Allo stupore del comune terrestre in viaggio verso i pianeti sconosciuti della giurisprudenza globale subentra l’ammirazione per questo tempio della democrazia (burocrazia) dove si dà la linea al 60-70 per cento delle legislazioni nazionali su ogni materia sotto al cielo.
La Thailandia è uno dei membri fondatori dell’Asean, l’associazione dei Paesi del Sud-Est omologa, ma molto meno vincolante della Ue per le rispettive sovranità nazionali. Inconcepibile che questa entità creata nel 1967 in piena guerra del Vietnam si metta a stabilire come in Europa le norme comuni di igiene per tutti i dieci Stati membri, ad esempio il tipo di olio vegetale ammesso per i banchetti fumanti di strada di Bangkok a base di larve di farfalla fritte e per i ristorantini viet dove si serve carne di cane nero. La solida Associazione asiatica fondata prima della Ue guarda al modello europeo come a un sogno, un modello irrealizzabile, tante sono lì le differenze nella struttura stessa dei singoli poteri nazionali. Per esempio non riescono a mettersi d’accordo per evitare il prosciugamento del Mekong che attraversa sei confini comuni.
Penso al lungo elenco delle peculiarità di questo universo frammentato e spesso violento dove si scontrano i gialli e i rossi di Bangkok, i buddhisti e i musulmani delle tre province meridionali etnico-malesi e quelli dell’Arakan, i Kachin e i soldati birmani, i filippini e i viet contro il dominio cinese nelle isole del Sud. Nemmeno quando scorreva ogni giorno il sangue nelle strade di Manila, Rangoon, Phnom Penh o Bangkok, i membri dell’Asean si sono mai azzardati a censurare, imporre obblighi, una presenza di truppe neutrali. È consolante che tutto sommato, grazie ai legami diplomatici dell’Asean, oggi nessuna frontiera è sigillata e i Paesi membri si riuniscono quasi regolarmente per risolvere controversie finanziarie, firmare accordi di partnership, portarsi solidarietà durante i frequenti cataclismi naturali. E la presenza in aumento di rappresentanti dell’Asean a Bruxelles e, viceversa, degli uffici Ue in Asia, è il segno che la chimera di una casa comune del diritto interna zionale continua a essere attraente. Attraverso a piedi o in taxi la capitale belga così diversa dagli spazi cresciuti in verticale di Giacarta e Singapore, con la consapevolezza che il passato, il presente, e il futuro dell’alleanza europea passano ormai indissolubilmente da queste arterie larghe e linde che a tratti scompaiono sotto l’asfalto, fiancheggiate da massicci edifici neoclassici alternati a strutture azzurrine in vetroresina dove tecnocrati e burocrati della nuova Europa si preparano giorno dopo giorno alla sfida sempre più competitiva col resto del Pianeta. Nel «Quartiere europeo» a ridosso di Place du Luxembourg, costellata di bar e locali dove avvengono gli incontri informali degli eurocrati, le porte elettroniche di passaggio tra l’uno e l’altro degli uffici ed edifici collegati si aprono al solo sfiorare di uno dei tanti distintivi elettronici temporanei che porto al collo, ottenuti dopo le pratiche di accreditamento basate su formulari che sono l’abracadabra d’accesso al sancta sanctorum. La collega veterana Maria Laura Franciosi, cofondatrice del Press club di Bruxelles, si muove come un pesce nell’acqua tra corridoi, scale e ascensori, banchi registrazione e sale conferenza e mi accompagna trangugiando un panino al volo attraverso i meandri dei diversi palazzi del labirinto Europa. Valletti e vallette in elegante uniforme nera sembrano gli unici a rimanersene fermi in un angolo, a osservare come me il via vai di uomini e donne eleganti a coppie con altri colleghi col cellulare appeso all’orecchio nel pieno esercizio delle loro funzioni.
Dal soffitto trasparente pendono come stalattiti faretti d’acciaio, sculture semoventi e ripetitori wi-fi e per la prima volta, chissà perché, mi torna come un flash nella mente l’immagine della capitale della Thailandia sotto coprifuoco. Come sembra lontano l’Oriente da questa città grigia e piovigginosa dove pulsa il cervello dell’Unione, figlia di Stati facinorosi che hanno smesso di spararsi e ora lasciano spalancate le rispettive frontiere oltre le quali, di qua e di là, vige la stessa moneta.
Noto che un gran numero di uomini e donne porta stampigliata al petto la definizione di lobbista, una professione guardata con sospetto in Asia (ma anche in Italia) e qui resa nobile da seri professionisti che lavorano attorno a norme e regolamenti per via dei quali una compagnia può fallire o prosperare per la posizione della virgola su un cavillo di un trattato maltradotto. Il ventottenne Andrea Raffaelli è uno dei 30 mila lobbisti che non amano essere chiamati così. «Siamo assistenti di diverse categorie di imprese» spiega, «agenti di interscambio con le istituzioni. La mia organizzazione per esempio rappresenta più di quattromila banche italiane».
Se Andrea vive molto negli uffici, lo stagista Luca Conti di Genova cerca di tuffarsi in pieno nella Bruxelles della vita di tutti i giorni e dei party, dove è molto alla moda offrire sandwich all’italiana, e dove ogni corporazione o gruppo d’interesse noleggia la sede più bella secondo il budget di promozione disponibile. La rappresentante della lobby dei produttori di alcol ci invita a una conferenza, seguita da drink offerti da diverse case di whisky, cognac e grappe, dove incontriamo l’analista di origini cinesi Lee Makiyama. Lee lavora alacremente in diversi settori del commercio per ridurre il gap tra Europa e Asia «e smantellare ogni pregiudizio» che ostacola le relazioni tra Est e Ovest, come dice. Ma anche lui deve ammettere che nessuno potrebbe imporre – per parlare di alcol – al regno thailandese di far vendere liberamente liquori durante le feste buddhiste o fuori dagli orari prescritti.
Grazie all’intercessione del diplomatico Giovanni Donato, l’ambasciatore italiano in Belgio Alfredo Bastianelli ci invita a un altro ricevimento delle associazioni per l’antitrust, che hanno affittato la sua splendida residenza dei primi del ‘900, acquistata da Vittorio Emanuele III e scelta dall’ex principe Umberto per annunciare il suo fidanzamento con la principessa Maria José del Belgio. Tra un toast e l’altro, ci spiega che i ricchi residenti hanno da tempo lasciato la capitale ormai ceduta agli eurocrati per godersi, ognuno per conto suo, le loro campagne nelle Fiandre e in Vallonia.
Mi è subito chiaro che i partecipanti a queste kermesse social-affaristiche della Bruxelles da bere passano per lo più il tempo cercando di avvicinarsi al personaggio che potrebbe imprimere una svolta alla loro carriera. «È triste ma è così» dice Luca, «qui ti rendi conto che si frequentano certe persone solo per quello di cui si occupano, e non per quello che sono».
Nell’Europa delle regole e dei divieti la sindrome del lobbismo sembra entrare nel sangue della gente anche se le amicizie vere resistono e si celebrano con cene intime nelle casette di quartieri come Etterbeek che costano meno di mille euro al mese, uno dei prezzi più bassi tra le capitali d’Europa. Spesso sono condivise, talvolta arredate con mobili lasciati in strada da chi non li usa più, buoni per nuovi immigrati, africani, arabi, marocchini.
Nella città vecchia dove gli eurocrati residenti si riversano durante i weekend a mangiare il pesce a Place Saint-Catherine, le fritture a Place Jourdan e il cibo esotico nei ristoranti etnici d’Ixelles, non serve un badge per l’accesso. Provo un certo sollievo dopo i tre giorni e mezzo della settimana passata nei palazzi dell’Unione in cui molti occhi hanno scrutato con finta distrazione il mio cartellino elettronico per scoprire che tipo di essere avessero davanti. Alcuni accigliavano la fronte con perplessità notando che ero un ospite temporaneo, riconoscibile dall’aria smarrita con cui mi guardavo attorno cercando di fermare un’immagine tra le mille che affollano la mente quando entri in un luogo sconosciuto e alieno.
Ovunque potevo avvertire il lavoro incessante di un cervello collettivo che dai palazzi del Quartiere europeo trasmette attraverso tutti i mezzi della tecnologia di internet impulsi a un piccolo impero di Stati associati che hanno fatto della Ue il secondo partner commerciale dell’Asean, anche grazie ai suoi prodotti muniti di marchi di garanzia, preferiti a quelli delle aziende orientali senza etichette affidabili.
Ricordo che appena tre e quattro anni fa – quando la Birmania dei generali era ancora sotto i test del mondo per la sua prima timida apertura – l’inviata europea Catherine Ashton snobbò entrambi i meeting di cooperazione con l’Asean, della quale oggi il Myanmar è presidente di turno. Ma è storia recente la ripresa degli incontri annuali di vertice tra i leader dei due emisferi nel pieno di una crisi senza precedenti dei mercati che diventano, lo si voglia o meno, sempre più comuni. Lo sa bene la Cina che ha spedito qui più di 50 tra analisti e giornalisti, come Mr Liu dell’agenzia cinese Xinhua, che incontriamo al press club mentre è in cerca di storie sulle relazioni tra Ue e Pechino. Maria Laura Franciosi spiega che ora anche Giappone e Corea stanno decisamente aumentando le presenze a Bruxelles e lentamente si torna a parlare di una riedizione del celebre Trattato Fti di libero commercio tra Ue e Paesi del Sud-Est, abortito nel 2009 dopo due anni di tentativi d’intesa falliti.
L’analista Paolo Raffone e il direttore di EuNews Lorenzo Robustelli raccontano che in questo clima di fervore globale, anche la tranquilla Bruxelles dei palazzi dell’art déco e noveau circondati di locali e cioccolaterie per turisti, è diventata un crocevia dello spionaggio internazionale, sospettato per le strane morti di alti diplomatici e rappresentanti di grandi aziende. Un prezzo da pagare forse inevitabile – dicono per l’espansione.
Solo verso la fine del mio viaggio europeo mi sembra ormai chiaro che la paura dell’Asia per un matrimonio più stabile e basato su regole comuni è quella di riaprire fratture antiche e provocare rivolte o guerre civili all’indomani di una singola scelta sbagliata di burocrazia transnazionale. La percezione comune in Estremo Oriente – dove i progressi tecnologici e finanziari sono più basati sulla competizione vigilata attentamente da Pechino a Washington che su cavillosi trattati di alleanza – è che non sempre gli strumenti della democrazia inventata per altre genti e culture dell’Occidente funzionano automaticamente a ogni latitudine. Lo sanno bene i cittadini di Bangkok che preferiscono andare per shopping con qualche soldato agli incroci piuttosto che rischiare un lancio di granate.