Cristiana Pulcinelli, l’Unità 28/7/2014, 28 luglio 2014
DISINTOSSICARSI DALLA VIOLENZA – [TERAPIA DI GRUPPO PER UOMINI CHE ODIANO LE DONNE]
UN’INTERESSANTE ESPERIENZA SI STA SVOLGENDO IN BELGIO. Riguarda un tema caldo e su cui, almeno qui da noi, si lavora ancora troppo poco: la violenza all’interno della famiglia. L’esperienza riguarda un’associazione senza fini di lucro, Praxis, che nella parte francofona del Paese ha messo in piedi numerosi gruppi di responsabilizzazione per aiutare gli autori di violenza coniugale e familiare.
La cosa più interessante è che questa terapia di gruppo è considerata una misura giudiziaria alternativa. In sostanza, invece del carcere o degli arresti domiciliari, l’autore di atti di violenza contro il coniuge o i membri della sua famiglia può essere indirizzato a Praxis e lì seguire un percorso terapeutico che si svolge in gruppi.
Tutto nasce nel 1994, quando in Belgio viene approvata una legge sull’organizzazione delle misure giudiziarie alternative. Praxis propone un progetto per gli autori di violenze associate al consumo di sostanze psicotrope. Il progetto di formazione socio-educativa di gruppo per un totale di 45 ore viene accettato. Dall’anno successivo si comincia a lavorare. Alla fine degli anni Novanta, però, gli operatori si accorgono che una buona percentuale (il 34%, per la precisione) dei partecipanti ai gruppi per gli autori di reati associati al consumo di prodotti psicotropi ha commesso atti di violenza coniugale o familiare. Così si decide di orientare l’offerta di servizi anche a queste persone, a prescindere dall’abuso di sostanze stupefacenti. Nel 2001 nasce il primo gruppo e oggi la terapia si rivolge a «gruppi di responsabilizzazione per autori di violenze coniugali e familiari».
Un altro passaggio critico avviene nel 2004 quando, grazie a una sovvenzione del ministero federale per le pari opportunità, si dà il via a una sperimentazione che apre i servizi ai volontari. Il gruppo non è più formato solamente da coloro che vengono mandati dalle autorità giudiziarie, ma anche da persone che si rivolgono autonomamente al centro o per una presa di coscienza individuale, oppure in seguito a una crisi acuta (ad esempio l’intervento della polizia), o ancora sotto la minaccia di separazione da parte del partner che gli intima di occuparsi del problema.
Nel 2011 Praxis ha preso in carico più di mille autori di violenza, 837 sotto mandato giudiziario, 272 volontari. Ogni settimana si riuniscono 13 gruppi aperti (ogni gruppo è formato da 9 partecipanti) e 10 gruppi chiusi, dove si svolge un lavoro più intensivo. L’équipe si compone di 19 animatori formatori, per lo più psicologi e criminologi.
Secondo la filosofia dell’associazione, ogni persona viene accolta come persona degna di rispetto, a prescindere dalla sua storia. Il percorso si snoda poi a partire da una domanda chiave: qual è la mia parte di responsabilità per quello che mi accade? Il lavoro viene svolto in gruppo perché la violenza isola: isola le donne, i figli, ma anche l’uomo che la commette. Il lavoro di gruppo reintroduce la dimensione collettiva in una dinamica che porta all’esclusione, dicono gli operatori di Praxis.
Per capire l’esperienza belga, cerchiamo di vedere cosa succede in Italia: «Una donna che subisce violenze domestiche – dice Luigi Cancrini – ma che ha un certo potere economico e sociale si può rivolgere ad avvocati, farsi aiutare. Ma nella maggior parte dei casi, la donna non ha questi strumenti e così abbozza per anni per paura che, denunciando il partner, possa perdere la sua fonte di sostentamento. O anche per paura che una sua ribellione, ad esempio rivolgersi alla polizia, possa portare a nuove violenze, una volta tornata a casa. Quando riesce a superare queste paure, va in un centro di aiuto per donne maltrattate e, nei confronti del marito, si apre un’azione penale. Purtroppo questa azione penale si sviluppa normalmente in 3-4 anni e, nel frattempo, nell’uomo cresce la rabbia e il risentimento». L’unica azione possibile da noi è quindi quella penale. Una misura alternativa costerebbe enormemente meno rispetto al carcere e sarebbe effettivamente rieducativa. Anche rispetto agli arresti domiciliari presenterebbe un vantaggio: quello di occuparsi delle persone e del loro malessere. «Senza contare – prosegue Cancrini – che permetterebbe altre evoluzioni importanti soprattutto per i bambini».