Marianna Cappi, Donneuropa.it 29/7/2014, 29 luglio 2014
LE AVVENTURE DI ELASTI
La conoscono tutti: è Elasti, ha tre hobbit di sesso maschile, uno grande di undici anni, uno di mezzo di otto e uno piccolo di quattro, e un marito part-time perché per buona parte del suo tempo sta a Londra a fare l’economista marxista, o nel mezzo del nulla del Massachusetts. Ed è proprio da Amherst, cittadina universitaria tra i boschi, dove gli studenti maschi girano con il cerchietto rosa tra i capelli e la barba sfatta e le ragazze non si depilano per non sottomettersi ad un diktat sessista, che Claudia De Lillo ci racconta la sua avventura nella scrittura, dal fortunatissimo blog, Nonsolomamma, all’ultimo libro, Dire Fare Baciare (qui una recensione divertente), dedicato alle ragazze, e un po’ anche alle loro mamme.
Perché Elasti?
Nel settembre del 2006 ero devastata, avevo un bimbo di 5 mesi, uno di tre anni ed ero appena tornata al lavoro. Avevo pensato all’idea di aprire un blog dedicato alle mamme sull’onda dell’entusiasmo, ma senza nessuna preparazione, quindi quando la schermata mi ha chiesto un nickname sono stata presa alla sprovvista. Poiché in quel periodo vedevo a ripetizione il cartone animato Gli Incredibili con mio figlio grande, e l’avevo visto quella sera stessa e la sera prima e quella ancora prima, il primo nick che mi è venuto in mente è stato “Elastigirl”. Mi piaceva l’idea dell’elasticità e che il mio nome per il blog fosse quello di una super eroina. Poi è diventato Elasti, ed Elasti-mamma nei libri usciti con Tea. Sembra un’idea di marketing ma è stata solo un’intuizione fortunata, un nome scelto per caso che però mi ha cambiato la vita, perché poi Elasti è diventato un personaggio con una sua vita autonoma rispetto a me. Due anni fa, quando mi ha chiamato il presidente della Repubblica per premiare Elasti, io non ci potevo credere.
Tu, infatti, nella vita ti chiami Claudia De Lillo e fai la giornalista finanziaria…
In realtà sono in transito. Lascerò la Reuters, l’agenzia di stampa per la quale ho lavorato 18 anni, e andrò a Radio Due a condurre Caterpillar, alla mattina. Anche se da settembre mi dovrò svegliare ad un’ora improponibile: sono molto molto felice.
Una grande novità! Ma torniamo a quando hai deciso di aprire il blog, al punto in cui è cominciato tutto…
Ero un po’ soffocata dalla mia vita di mamma di bambini piccoli e di lavoratrice a tempo pieno in un impiego che avevo amato molto ma in cui mi riconoscevo sempre meno. Avevo voglia di misurarmi con una scrittura diversa da quella del giornalismo finanziario, perciò il blog è stato un po’ un test con me stessa, per vedere se qualcuno veniva a leggermi. E poi mi sembrava che non ci fossero, in Italia, molti racconti della vita schizofrenica delle mamme che lavorano e sono ingabbiate in due ruoli agli estremi. Perché quando fai la mamma a tempo pieno ti alieni e ti viene da chiederti: “Ma era veramente questo che volevo?”. Ed è vero che è un periodo transitorio quello in cui i bambini sono molto piccoli, ma è anche vero che sembra non finire mai… Dall’altro lato, al lavoro, senti che non sei più quella di prima, che il tuo baricentro è cambiato, sono cambiate le tue priorità, non investi più tutta te stessa, senza orari, cominci a pensare che c’è dell’altro, e non sempre gli altri si accorgono di questo cambiamento, o forse preferiscono non accorgersene: specie i datori di lavoro.
Il blog ha generato due libri, Nonsolomamma e Nonsolodue, e una rubrica amatissima su D, allegato de la Repubblica.
Ero incintissima del mio terzo figlio e avevo deciso di chiedere il part-time alla Reuters, l’agenzia di stampa per cui lavoravo da anni, perché con tre figli non potevo lavorare full time. Ero determinata ad andarmene se non me l’avessero dato, perché non vedevo altra soluzione. A pochi giorni dalla nascita del bambino, nel 2009, mi è arrivata la telefonata dall’allora direttrice di D che mi proponeva una rubrica tutta mia. Era quello che sognavo, probabilmente, e il fatto di avere alle spalle già tre anni di blog quotidiano mi ha aiutato molto. Avere una rubrica settimanale è una cosa impegnativa perché devi attingere a te stesso ma anche scrivere cose universali, per catturare più lettori possibili. Mi faceva paura l’idea di parlare ad un pubblico molto più vasto di quello che mi veniva volontariamente a cercare sul blog, per fortuna avevo la disciplina della scrittura. Ho un lato ossessivo, nevrotico, che mi obbliga a scrivere tutti i giorni, e, si sa, più fai una cosa più la fai bene e più ti viene facile farla.
Hai portato su un settimanale femminile la tua voce di mamma e moglie, che in una rivista del genere ha il suo luogo naturale, ma paradossalmente non c’era mai stata…
Sì, la direttrice ha avuto coraggio. A volte le donne ai vertici tendono a nascondere il lato privato, ma è la pasta di cui siamo fatte. E io sono convinta che anche parlando di cose apparentemente piccole si riescano a veicolare messaggi alti. L’educazione dei figli, per esempio, riguarda come vedi la vita, come costruisci il tuo futuro nel mondo: sono temi altissimi. Sdoganare argomenti su cui c’era un velo di enorme pudore è stato importante. Al di là di quel che faccio io, si è diffusa l’idea che se parli di te stessa senza grandi filtri, se ti togli la corazza e ti disarmi, induci anche gli altri a farlo e si genera un processo di condivisione virtuosa dell’esperienza, delle cose belle e brutte, che è un motore fortissimo per andare avanti.
Non era però scontato che riuscisse la condivisione con le adolescenti protagoniste del tuo ultimo libro Dire Fare Baciare. Istruzioni per ragazze alla conquista del mondo (Feltrinelli Kids)
È stata una bella sfida. L’idea del libro non è mia, mi ha contattato una editor di Feltrinelli proponendomi questo dialogo con ragazze giovani. Credo che noi donne, più degli uomini, abbiamo un terreno comune di emozioni, un vissuto soggettivo, e anche un po’ di sfiga nel posizionarci nel mondo, che riesce a creare un canale di comunicazione a qualsiasi età. Sono usciti vari libri sugli adolescenti negli ultimi tempi, come Gli Sdraiati di Michele Serra, o Smamma di Valentina Diana, in cui però sostanzialmente gli adulti guardano questi alieni sul divano, alzano le braccia e dicono: ti ho perso, speriamo che passi presto. Nella mia esperienza di preparazione del libro avevo un’altra ottica, perché – certo – ci sono delle specificità generazionali, ma c’è un dialogo sotto traccia, tra chi da certe cose è passata prima e chi ci sta passando, che può rimanere apertissimo.
Nel libro, per creare questo ponte tra generazioni, t’inserisci in prima persona, parli dei tuoi primi fidanzati, e della mamma di Carlo, uno di loro, che un giorno ti disse la fatidica frase: “La parità tra uomo e donna c’è fino a quando non arrivano i figli. A quel punto è finita.” Hai raccolto tante storie di difficile conciliazione tra lavoro e famiglia, e tu stessa, tre volte mamma, ci hai fatto i conti. Dicci che hai trovato la ricetta magica della conciliazione possibile.
La ricetta ideale, come la quadratura del cerchio, non si trova mai. Bisogna tenere in considerazione che gli elementi fondamentali sono due: i figli e la realizzazione di sé. Perseguire in modo tenace un percorso in cui la realizzazione di sé rimane un elemento importante è una ricetta fondamentale anche per essere delle buone madri.
Molti uomini, oggi, se ne rendono conto. Le istituzioni meno.
Infatti. I figli restano un problema della madri. Io credo che le forzature legislative siano l’unico modo per creare la cultura che manca in questo senso. È come la raccolta differenziata o il divieto di fumo: all’inizio sono tutti scontenti, ma dopo un po’ ammettono che funziona. Incoraggiare, dall’alto, il lavoro flessibile e il part-time, non solo per le donne ma per tutti, e la paternità obbligatoria – non solo 4 giorni, che fa ridere – farebbe un gran bene alla società intera, perché aiuterebbe a passare il messaggio che i figli non sono un problema della madri ma un patrimonio di cui si deve preoccupare la collettività. Qualsiasi madre che lavora sa che l’asilo non basta: ci vuole un cambio di mentalità, un coinvolgimento maggiore. Sono ideologicamente contraria all’idea del lavoro precario e senza garanzie, ma questa è la direzione in cui stiamo andando e non pare che all’orizzonte ci sia una possibile inversione di tendenza: allora prendiamoci almeno, madri e padri, il meglio di questo sistema un po’ barbaro, ad esempio la possibilità di entrare e uscire dal mercato del lavoro in maniera un po’ più disinvolta. Io vedo che qui in America uomini e donne si licenziano spessissimo e riprendono a lavorare dopo un anno o due. In Italia, ancora oggi, se esci dal mondo del lavoro per due anni rientrare può essere molto problematico. Ma credo che le cose si stiano muovendo anche da noi, e un pochino stiano migliorando.
Dal tuo libro emerge chiaro il ritratto dell’adolescenza come di un’età in cui il corpo e la mente hanno tempistiche diverse. È vero che succede spesso, specie alle donne, ma a quell’età c’è un vero e proprio scollamento. Tu scegli di non giudicare e di non dare consigli su cosa sia meglio o peggio fare, tranne che per un precetto, che ripeti più di una volta: “Ascoltati. Rispetta in primo luogo te stessa”.
Sì, proprio perché ti trovi in un’età in cui corpo e mente sono particolarmente scissi, devi aspettare chi resta indietro. L’immagine che tante ragazzine danno di loro sui social è quella di donne a tutti gli effetti, pronte ad affrontare qualsiasi cosa, ma in realtà, quando le incontri, ti accorgi che sono poco più che delle bambine. Rispetto alla nostra, questa generazione ha una maggior disinvoltura nella gestione della propria immagine e anche del proprio corpo, nel senso che – senza arrivare agli eccessi di quelle che aspettano i diciotto anni per rifarsi completamente – c’è l’idea che il corpo sia uno strumento perfettibile, quasi che ci si potesse “photoshoppare” anche nella realtà. Unghie colorate, capelli tinti, depilazione perfetta: fuori sono molto costruite, ma lo scontro con la propria mentalità ancora infantile è inevitabile. Perciò è importante, anche da parte dei genitori, veicolare il messaggio che non è detto che, se hai le tette, tu sia pronta a fare qualsiasi cosa. Sei donna quando sia la testa che il corpo sono da donna. Non sono credente, non ho avuto un’educazione particolarmente cattolica, non credo alla sacralità del corpo, alla verginità, ma credo molto al rispetto di se stessi e credo che alcune esperienze, se fatte prima del tempo, rischiano di inquinare un po’ la percezione che hai dell’altro, del sesso, dei maschi: ed è un peccato, perché sono esperienze bellissime.
Noi femmine tendiamo a dare la colpa di tutti i nostri difetti e di tutti i nostri errori alla mamma, salvo poi desiderare, fin da bambine, delle figlie femmine su cui perpetrare allegramente gli stessi errori. Siamo diaboliche o cosa?
Sì, siamo un po’ perverse. Devo dire che mai come facendo queste interviste alle ragazzine per il libro mi sono sentita sollevata dalla responsabilità di avere figlie femmine. Tanto sono intelligenti, acute, stimolanti, anche profonde e consapevoli, tanto, appunto, sono aggrovigliate, complesse, e le implicazioni che ci sono tra una madre e una figlia sono gigantesche. Per questo, io, che sotto sotto ho sempre desiderato avere una figlia femmina, certe volte mi dico: “Beh, l’ho scampata bella…”
L’ultima domanda è da parte di mia figlia, appunto. Credo che possiamo intenderla in senso lato. La domanda è: ma tu, sei mai stata a Zoomarine?
Cavoli, no! Però ho fatto feste in piscina per trenta bambini, passato pomeriggi in ludoteca, dedicato le vacanze a questo posto assurdo in America dove i miei figli, nei campi estivi, fanno l’esperienza di essere loro i diversi, in mezzo a fricchettoni estremi, nerd galattici, millepiedi giganti, camaleonti da tenere a casa, a turno, il sabato e la domenica… Non mi sono fatta mancare niente!