Paolo Scotti, Il Giornale 29/07/2014, 29 luglio 2014
INTERVISTA A GIORGIO ALBERTAZZI
Dica la verità, Albertazzi: essere chiamato «maestro lusinga la sua vanità, o insidia - piuttosto - la sua modestia? «Manifesta il senso del superfluo - ribatte lui -. Ormai, per essere chiamato maestro, basta avere un’età ragguardevole. Fino a vent’anni fa, in Italia, erano tutti dottori. Oggi sono tutti maestri». E forse è appunto qui, in un misto d’orgoglio e disincanto, il segreto di questo prodigioso novantunenne, che con miracolosa energia e intatta grandezza sale ancora in scena (stasera al Teatro di Ostia antica, nel recital Miti ed eroi) battendo perdippiù tutta Italia, e per tutta l’estate, col suo personalissimo Mercante di Venezia.
Scusi l’irriverenza, Albertazzi: ma la sua ragguardevole età c’entra qualcosa con le file di spettatori che accorrono a vederla?
«C’entra, c’entra. Una volta, vedendo la fila di spettatori che da mesi si formava davanti al teatro Eliseo, per vedere Eduardo De Filippo, chiesi a Vittorio Gassman: “A parte la grandezza di Eduardo, cosa spinge tutta questa gente?”. E Vittorio, lapidario: “Il pensiero che potrebbe essere l’ultima volta che lo vedono”».
Considerazioni anagrafiche a parte, forse più che il personaggio, vengono a vedere l’attore.
«Che poi, nel mio caso, è la stessa cosa. Io non credo più nella finzione scenica; nell’attore che impara a memoria e recita le parole di un altro. Come Artaud, come Carmelo Bene, nel Mercante di Venezia io non faccio più Shylock. Io sono Shylock. Un po’ quel come la Duse. Vedendola, Checov scrisse sul suo diario: “Per oltre due ore non sono riuscito a capire se in scena stesse recitando, o semplicemente vivendo”».
Se per lei recitare è vivere, come fa a sopportare la recitazione degli altri?
«Infatti mi annoia. La trovo costruita, stereotipata, decorativa. Intendiamoci: io so riconoscere un bravo attore. Ma molti attori, invece di avvicinarsi al personaggio con una carezza, compiono quasi uno stupro».
Il suo carisma è forse dovuto anche al suo turbolento passato. Alle sue tante donne, innanzitutto.
«La donna ha l’intelligenza del corpo. Che poi è il teatro. Per questo amo l’uno e l’altra. Devo a una donna se ho cominciato a fare teatro. Da ragazzo su una corriera avvicinai una splendida figliola. “Perché non vieni a recitare con me?”, mi chiese. Le avrei detto di sì anche se fossimo andati a rubare. E poi tre persone importanti nella mia vita sono state donne. Mia nonna Leonilde, 101 anni. La mia professoressa di latino Cinita, di cui ero innamorato (33 anni lei, 12 io) e che mi fece amare di Dante. E Anna Proclemer».
Ma talvolta il suo passato s’è ritorto contro di lei. Come la sua militanza nella Repubblica di Salò.
«Quand’ero giovane io, essere fascista significava essere italiano. Il mondo era quello. Per questo scelsi Salò. Ma anche se non mi sono mai considerato di destra (semmai più vicino al dannunzianesimo fiumano, che nasceva dalla sinistra del socialismo) quel passato me l’hanno fatto pagare. Nel cinema, ad esempio; che essendo stato per decenni dominio della sinistra, mi ha spesso tenuto accuratamente alla larga».
Molti ignorano che durante la guerra Albertazzi salvò la vita a 19 ebrei. È vero?
«È vero. Ebbi la possibilità di farli fuggire in treno, dalla Toscana al Veneto, e la colsi al volo. È scritto nella sentenza d’assoluzione del tribunale militare. Per me non erano ebrei. Ma italiani. O ebrei della diaspora. Proprio come Shylock».
Il teatro, le donne... Cos’altro ama della vita?
«I cavalli. Se mi spedissero su Marte dicendomi di portarmi una cosa sola, porterei con me un cavallo».
La sua età le ispira talvolta - perdoni l’indelicatezza - il pensiero della morte?
«Spesso. Ma senza ansia. Tutto comincia, tutto finisce. Un limite? No: uno stimolo straordinario. Gli dei, che sono immortali, si annoiano a morte. Per loro tutto si ripete sempre identico a sé stesso. A noi uomini, invece, è riservata la precarietà. “Attimo fuggente, fermati: sei bello”, dice Goethe. Il che sarà straziante. Ma anche meraviglioso».