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 2014  luglio 28 Lunedì calendario

MICHAEL MOORE, L’ANTICAPITALISTA COL SUPER CAPITALE


Nel mondo intellettuale, ci sono alcune scorciatoie per diventare «autorevoli» o almeno per far parlare (bene) di sé. In passato, il regista statunitense Michael Moore ha giocato con successo la carta dell’indignazione anti-capitalista, di solito perfetta al fine di conquistare il mercato della cultura. Oggi però Moore si trova costretto a fronteggiare schiere di (ex) fan che, per usare un eufemismo, mettono in discussione il suo curriculum vitae di fustigatore del «neo-liberismo selvaggio». I giornali britannici Daily Telegraph e Daily Mail hanno infatti pubblicato le carte della separazione tra Moore e la moglie Kathleen Glynn. La coppia ha appena divorziato dopo 22 anni di matrimonio, faticando a trovare l’accordo sulla divisione dei beni. Cosa c’è nei documenti? Sorpresa. Il regista è una specie di Paperon de’ Paperoni. L’icona della sinistra no global ha un patrimonio stimato in 37 milioni di euro e possiede nove immobili tra cui un condominio a New York, una villa da un milione e mezzo di euro sulle rive del lago Torch in Michigan (929 metri quadrati) e varie abitazioni a Detroit. Un bel capitale guadagnato grazie ai suoi documentari contro il capitalismo.
Era il 2004 quando scoppiò il caso di Fahrenheit 9/11, il film in cui Moore, telecamera al seguito, vagava per gli Usa raccontando la «vera» storia dell’11 settembre. L’attentato alle Torri Gemelle era stato strumentalizzato dal presidente George W. Bush, in cui convivevano due personalità: il perfetto idiota e lo spregiudicato affarista. Secondo Moore, la dinastia dei Bush avrebbe avuto solidi legami con lo sceicco Bin Laden attraverso il gruppo Carlyle, appaltatore di oleodotti. La guerra in Iraq, voluta dalle corporation del petrolio, avrebbe fruttato montagne di dollari sia a George sia a Osama. Vuoi non dare una Palma d’oro a un simile guazzabuglio complottista? Infatti Moore vinse al festival del cinema di Cannes, nonostante giornalisti come Christopher Hitchens, certamente non un fan di Bush, avessero massacrato il film, giudicandolo pieno di falsità. Nel 2009, Moore realizzò Capitalism: A Love Story, una predica contro il capitalismo a partire dalla crisi dei mutui. Vuoi non invitarlo con tutti gli onori alla Mostra del cinema di Venezia? Infatti fu invitato ma non incoronato perché il documentario risultò parecchio sgangherato. Era comunque un assalto all’arma bianca contro il liberismo, nemico della democrazia, amico degli squali della finanza, causa di povertà. Qualcuno fece notare inutilmente che l’analisi economica non stava in piedi, e che semmai l’Occidente, nonostante le innegabili storture, non era mai stato così ricco. Alla fine del film, Moore, presente in ogni scena, dichiarava: «Il Capitalismo è il male, non si può regolare il male. Bisogna eliminarlo e rimpiazzarlo con qualcosa che faccia il bene di tutta la gente. Con qualcosa di democratico». E ancora, in una intervista al Guardian: «Chiedo un nuovo ordine economico. Non so come costruirlo, non tocca a me. Tutto quello che voglio è che segua alcuni principi. Il primo? L’economia deve essere diretta democraticamente, il popolo intero deve avere voce in capitolo, non solo l’1%. Il secondo? Che al centro ci sia l’etica».
In attesa della rivoluzione, mentre puntava il dito contro Wall Street, Moore accumulava milioni, vivendo, come rivelano al Daily Mail i maldicenti vicini, come uno degli «squali» tanto deprecati nei suoi film. Moore non è certo il primo «ribelle» perfettamente integrato nel sistema che vorrebbe a parole distruggere. Il mercato è così ampio e generoso da premiare talvolta anche chi vorrebbe cancellarlo. È il suo bello, la sua forza, la prova della sua superiorità morale. Nessuno scandalo, quindi. Il regista ha intercettato una domanda e la sua offerta è risultata vincente. Stupisce però che Moore, pur avendo toccato con mano i vantaggi offerti dal capitalismo, non abbia avuto neppure un ripensamento. O ci farà un documentario?