Antonio Carioti, Corriere della Sera 29/07/2014, 29 luglio 2014
VISENTINI, L’ANTIFASCISTA BORGHESE
Acuto giurista, ministro delle Finanze e artefice d’importanti leggi tributarie, firma di grandi testate come «Il Mondo» di Mario Pannunzio, il «Corriere della Sera» e «la Repubblica», Bruno Visentini era nato a Treviso un secolo fa, il 1° agosto 1914. Ed è passato alla storia come il «gran borghese», un protagonista della vita pubblica ben diverso dai politici di professione e anche piuttosto sprezzante nei loro riguardi. Eppure fu a lungo (dal 1979 al 1992) presidente di un partito, quello repubblicano, e da giovane aveva militato con forte slancio ideale e notevoli rischi nel Partito d’Azione. Antifascista già negli anni Trenta, incarcerato a Roma nel 1943 e liberato alla caduta di Mussolini, aveva partecipato alla Resistenza nella capitale, curando la stampa clandestina del giornale azionista «L’Italia Libera».
Intriso della passione civile che lo aveva spinto alla lotta è un agile saggio scritto da Visentini nel giugno 1945, all’indomani della Liberazione, Due anni di politica italiana (1943-1945) , ora riproposto dall’editore Aragno (pagine 100, e 10) a cura di Sandro Gerbi. Per la verità l’autore molti anni dopo, in età matura, aveva dichiarato di nutrire «qualche riserva» su quel testo e, ricorda Gerbi, aveva espresso parere contrario alla sua ripubblicazione. Senza dubbio si tratta di un libro datato, nel quale si ipotizzava per il Pd’A, subito dopo l’approdo dell’azionista Ferruccio Parri alla testa del governo, un ruolo di sintesi politica superiore alle sue forze. Ma sull’importanza del ruolo che il suo partito aveva svolto nel rompere la continuità monarchica dello Stato Visentini non aveva cambiato idea: ancora nel 1978, su una rivista dei giovani repubblicani, vi tornò in polemica con il comunista Giorgio Amendola.
Le basi per la nascita della Repubblica, sosteneva, erano state poste esattamente due anni prima del referendum istituzionale celebrato il 2 giugno 1946: «L’8 giugno 1944 — così cominciava il saggio di Visentini — costituisce una data d’importanza fondamentale nella recente storia d’Italia». Fu allora che, su pressione del Pd’A, il maresciallo Pietro Badoglio dovette abbandonare la presidenza del Consiglio e si decise che, dopo la guerra, sarebbe stata eletta un’Assemblea Costituente con il compito di dare al Paese un nuovo assetto istituzionale. Nel frattempo i governi, a partire da quello che si formò allora con a capo Ivanoe Bonomi, sarebbero stati espressione dei partiti antifascisti del Comitato di liberazione nazionale (Cln).
A dispetto di quanto spesso si dice sulla subalternità degli azionisti al Pci, il libretto di Visentini era assai severo (forse lui stesso riteneva di esserlo stato un po’ troppo) verso Palmiro Togliatti. E non solo per l’atteggiamento di apertura alla monarchia assunto dai comunisti nella primavera del 1944 con la famosa «svolta di Salerno». L’esponente del Pd’A denunciava con asprezza tutta la concezione marxista-leninista dello Stato, «decisa a imporre la dittatura dei suoi esponenti», anche attraverso «la conquista di posizioni tattiche», e piuttosto disinteressata «ad una esigenza di democrazia politica» come la fine della dinastia sabauda.
Curioso è poi il passo in cui Visentini, nel descrivere i tentativi compiuti da Badoglio per rimanere in sella, bollava come una strumentale «guerra dei nervi» le voci su un «governo dei tecnici», cioè l’ipotesi di tornare all’esecutivo di alti burocrati formato dal maresciallo nel luglio 1943, al crollo del fascismo. Parecchio tempo dopo, all’inizio degli anni Ottanta, lo stesso Visentini sarebbe stato accusato di volere un «governo dei tecnici», per la sua insistenza sulla necessità di nominare ministri competenti. In realtà il presidente del Pri, ben consapevole che «il governo è un fatto squisitamente politico», aveva chiesto di svincolare il potere esecutivo dalla soggezione ai partiti e alle correnti, che andavano sempre più prevaricando e occupando le istituzioni. Lo riconobbe alla sua morte, nel 1995, un leader da lui distante come Giulio Andreotti: chi volesse presentare Visentini come un antesignano dell’antipolitica «sarebbe fuori strada».
Molti altri sono i motivi di attualità del suo pensiero e della sua opera. Per esempio la battaglia per salvare Venezia. E poi c’è la questione dell’industria di Stato. Vicepresidente dell’Iri e presidente dell’Olivetti per lunghi anni, Visentini conosceva bene il settore pubblico e quello privato dell’economia. Era stato contrario alla creazione del ministero delle Partecipazioni statali negli anni Cinquanta, ma riteneva che l’Iri e le banche pubbliche avessero funzionato come un utile volano dello sviluppo nel periodo della ricostruzione. «Era convinto — ricorda il figlio Gustavo Visentini — che quando l’intervento pubblico straordinario diventa ordinario, finisce per degenerare, si burocratizza, genera faide di potere e lottizzazioni. Considerava necessario far decollare il mercato azionario per dare respiro all’economia, pensava che il nostro sistema finanziario bancocentrico alla lunga non potesse reggere».
All’inizio degli anni Novanta Visentini aveva preparato un libro su questi temi, raccogliendo e rielaborando diversi suoi interventi, con un taglio molto critico verso la gestione dell’Iri. Poi preferì non dare alle stampe quel volume, che adesso è stato recuperato e uscirà il prossimo anno. Mentre si prospetta una nuova ondata di privatizzazioni, c’è da ritenere che sarà una lettura istruttiva.