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 2014  luglio 29 Martedì calendario

LA VITA INSEGNATA DA UN FUNAMBOLO

Il 14 luglio del 1989 ero fra le migliaia di parigini e di turisti con lo sguardo rivolto verso il cielo, sui due lati della Senna all’altezza del Pont d’Iena. Faceva caldo, l’azzurro del cielo era quasi accecante, e un’epidemia di torcicollo percorreva quella folla trepidante e felice. La Senna, che in genere attraversa la città con un aspetto torbido e scontroso, sembrava partecipare alla festa brillando di scaglie dorate come nei quadri degli Impressionisti. La Tour Eiffel, da quelle parti, incombe sui passanti con tutta la sua tracotante eleganza. Cosa ci facevamo lì? Durante un’attesa che ricordo lunghissima, non vedemmo altro che un cavo d’acciaio, sospeso a molte decine di metri d’altezza da un lato all’altro del fiume, fra il Palais de Chaillot e il secondo piano della Tour Eiffel. Troppo lungo e pesante per essere dritto, descriveva una curva, come una specie di sorriso tracciato dal pennarello di un gigante invisibile. A un certo punto la folla iniziò a rumoreggiare, come sempre accade in questi casi, prima ancora che si vedesse sul serio qualcosa. Ma alla fine, armato del classico bilanciere che aiuta il senso dell’equilibrio e la postura, ecco che Philippe Petit apparve a tutti, mentre passo dopo passo percorreva il suo cammino interminabile.
Non comunicava alla folla rapita né la paura che nasce da un rischio ai limiti del concepibile né la possibilità di morire da un secondo all’altro, a causa di un solo passo falso. Non che questi siano ingredienti del tutto spregevoli in tali forme di spettacolo, ma l’arte di Philippe Petit poggia su tutt’altri fondamenti. Semmai, in gioco è la capacità di accettare la paura della morte, che è una parte della nostra natura esattamente come lo sono le gambe e il cervello, sfidandola alla luce di una visione più ampia. Che è quella del vero artista, che scriva o diriga un film o cammini su un cavo d’acciaio sospeso nel vuoto, senza reti o altri strumenti di salvataggio.
Mentre ammiravo l’impresa della Tour Eiffel, ancora non conoscevo lo splendido Trattato di funambolismo che, dopo innumerevoli rifiuti editoriali, Petit era riuscito finalmente a pubblicare nel 1985, grazie alla mediazione di uno dei suoi più illustri ammiratori, Paul Auster. Sbaglia di grosso chi crede che questo inestimabile libretto, destinato a scolpirsi nella memoria dei fortunati che lo leggono, sia destinato esclusivamente a chi voglia affrontare la carriera di funambolo. Il Trattato è un libro di autentica saggezza, e dunque di filosofia come la intendevano gli antichi greci. Non importa l’argomento di cui si parla, perché la posta in gioco non è una tecnica, ma la conoscenza di sé, la metamorfosi, la possibilità di orientare nella direzione giusta quello che Platone chiamava l’«occhio dell’anima». Ho letto pochi libri nella vita altrettanto capaci di mostrarci cosa sia la saggezza, e quanto sia importante il suo legame con la libertà. Anche se non saliremo mai nemmeno sul bordo di uno spartitraffico, anche se ci vengono le vertigini alla sola idea di guardare giù in cortile dal terrazzino della cucina, la conquista dell’equilibrio è pur sempre il nostro problema, forse il principale dei nostri problemi. Per descrivere questa conquista Philippe Petit trova una splendida metafora. L’equilibrio, spiega, all’inizio non è dentro il funambolo. È come una piuma che plana sul filo, e si allontana al vento dei suoi sforzi. Ma se questo vento inutile e dannoso «si indebolisce e muore», se allo sforzo subentra la consapevolezza del momento presente e la gioia di esistere, allora «la piuma entrerà nel funambolo per addormentarsi nel suo centro di gravità». Sostituite, leggendo il Trattato , la parola «funambolo» con «essere umano», e avrete fra le mani una terapia infallibile, degna di un maestro orientale.
Ma mi accorgo che ho lasciato Philippe Petit sul suo cavo, sopra la Senna. Arrivato a metà dei settecento metri, il percorso fino alla Tour Eiffel divenne una salita. Se non sbaglio, è quello che nel gergo dei funamboli si chiama «camminata della morte». Quel giorno d’estate Petit aveva quarant’anni esatti, era all’acme della sua forza fisica e del suo talento. Aveva già teso il suo filo tra le guglie di Notre Dame, sulle torri del ponte di Sydney, tra i due grattacieli del World Trade Center. A quei tempi eroici, all’impresa illegale seguiva puntualmente l’arresto. Nel 1989, fu Jacques Chirac, sindaco di Parigi, a patrocinare lo spettacolo. Si dice spesso che le celebrazioni della presa della Bastiglia siano puramente simboliche: al momento della sua distruzione, nel terribile carcere non rimanevano che cinque ladri e due detenuti per volontà delle loro famiglie. Ma quel giorno di luglio il Muro di Berlino, ben più orrendo simbolo di oppressione, aveva le settimane contate. C’era anche questo nell’aria, lo sentivamo. E se tutto ciò che venne dopo quell’anno meraviglioso ci ha deluso, non posso togliermi dalla testa che quella camminata sul vuoto di Philippe Petit sia stato il simbolo più puro dell’ultima ventata di libertà che ha percorso la vecchia Europa. Poter dire «io c’ero», con il caldo e il torcicollo come prezzo del biglietto, è una cosa che ancora mi rende fiero.