Davide Frattini, Corriere della Sera 29/07/2014, 29 luglio 2014
POLLO, MELOGRANI E PAURA. LA FESTA SOTTO LE BOMBE PER LA FINE DEL RAMADAN
Dodici chili di riso, dieci polli, sei chili di melograni, ottantadue ospiti. La casa di Jamila Dalloul si è riempita di cibo e solidarietà. Sono giorni che questa donnona fa avanti e indietro sudando dal mercato del quartiere, non è facile mettere insieme gli ingredienti: le melanzane fresche da trasformare in crema baba ganoush , la farina per impastare le focacce. Il pesce fresco è invece impossibile da trovare, le barche non osano uscire in mare, la marina israeliana pattuglia la costa. Il kiskh , almeno quello, lo aveva preparato prima di questi venti giorni di conflitto: grano saraceno lasciato a fermentare con lo yogurt di pecora.
Jamila ha passato il pomeriggio a cucinare aiutata da nove donne che assieme a lei hanno formato il gruppo di Zeitoun. Durante l’anno si ritrovano per reimparare (e insegnare ad altre) i piatti tradizionali: in pochi ne ricordano ancora il sapore, quasi nessuno le ricette. Abita in un palazzotto grigio di quattro piani affollato di parenti fuggiti dai villaggi e dalle zone sotto il bombardamento degli israeliani. «Stanno tutti da me — racconta — e non potevo lasciarli senza la cena che celebra Eid al Fitr, è la sera più importante dell’anno».
L’olio buono è l’ingrediente più pregiato e più difficile da recuperare, anche quando la guerra si prende una pausa. «I terreni coltivati a ulivi sono stati distrutti, ci vogliono tre anni perché un albero ripiantato dia i primi frutti, dieci perché le olive siano saporite. Ci tocca comprare quello importato e costa molto di più». In queste settimane è stato complicato anche cambiare le bombole del gas, l’elettricità va (quasi sempre) e viene (ogni tanto).
Le donne questa volta lavorano ai fornelli di casa sua. Anche il piccolo centro dove si ritrova la squadra di Cucina Zeitoun, distante un paio di strade, è occupato dagli sfollati accolti da Jamila e dal marito. Qui coltivano un piccolo orto e tengono qualche gallina per le uova fresche. È orgogliosa che le pietanze preparate da lei e dalle amiche siano finite in un libro pubblicato in inglese, un viaggio politico e culinario nella Striscia di Gaza descritto da Laila El Haddad e Maggie Schmidt.
«Il piatto principale che voglio offrire è la sumaghiyeh , riso e pollo stufato nelle cipolle. La tradizione vorrebbe l’agnello ma non sono riuscita a trovarne abbastanza». La guerra ha aggiunto l’ultima portata alla cena. Al tramonto anche Zeitoun è stata raggiunta dalle telefonate dell’esercito israeliano. La voce avverte di evacuare le case, minaccia «questa zona diventa un campo di battaglia». Lo stesso annuncio, seguito dalle bombe, che ha spinto gli 82 ospiti di Jamila ad abbandonare gli appartamenti e a venire da lei. «Restiamo qui – dice il marito –. Dove potremmo andare? Siamo in troppi, a Gaza non esiste un luogo sicuro. E c’è tutto questo cibo pronto».
Mohassin e i tre figli sono tornati a Shajaiya solo ieri mattina. I due piani sono rimasti in piedi, le vie devastate dai colpi dell’artiglieria e dai raid dell’aviazione stanno poco lontane. I bambini hanno già aperto i regali: vestiti e scarpe nuove, perché questo Eid somigli un po’ a quelli normali, la festa che chiude il mese sacro di Ramadan è soprattutto per loro. La cena non potrà essere uguale agli altri anni: «Siamo riusciti a comprare il pesce sotto sale, quello non può mancare». Non c’è altro, a parte qualche dolcetto di cioccolato e i biscotti per i piccoli. Nella calma apparente del primo pomeriggio i vicini passano da una casa all’altra, anche questo gesto fa parte della tradizione. Saluti di fretta, senza rimanere troppo.
Il marito è fuori a cercare l’acqua potabile, dai rubinetti esce solo quella salata. La mamma è venuta a trovarla con i due fratelli, il quarto figlio è morto durante la settimana di guerra alla fine di novembre del 2012, colpito dalle schegge di un proiettile israeliano. Non si vedevano dall’inizio dell’offensiva di terra, undici giorni fa. Fatma che di anni ne ha 55 non ricorda un altro Eid sotto le bombe. Sono scappati da Shajaiya e non hanno voluto accamparsi in una delle scuole dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, dove ormai hanno cercato protezione almeno 160 mila persone, quasi il 10 per cento della popolazione.
Samir taglia i capelli e la barba agli uomini di Zeitoun da 25 anni. Il bambino chiede di impomatargli la testa di brillantina, indossa il vestito della festa, una giacchetta blu e la cravatta scura. Ahmed si lascia coprire il volto dalla schiuma, Samir lavora ancora con il rasoio mano libera. Il volto viene ripulito dai peli e dalla stanchezza di questi giorni. Eid al Fitr dovrebbe rappresentare un nuovo inizio, l’occasione per ricominciare. Non quest’anno.