Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica 29/7/2014, 29 luglio 2014
A I TURISTI
il nome di Pechino rievoca automaticamente una serie di luoghi magici. La Città Proibita, ad esempio, immortalata da Bertolucci nel film L’ultimo imperatore . O la Grande Muraglia, costruita dal primo imperatore Qin, che diede il suo nome alla Cina stessa. O il Tempio del Cielo, con i tetti azzurri come la volta celeste che vi si venerava. Immuni dalle invasioni barbariche dei turisti, due luoghi della città preservano invece la memoria storica della vita intellettuale del paese, a due estremi della sua storia. All’inizio della quale sta Confucio, il Maestro Perfetto che anticipò di un secolo le teorie della Repubblica di Platone, secondo le quali il governo della nazione doveva essere affidato ai sapienti.
Confucio non era naturalmente l’unico pensatore di un’epoca che, non a caso, viene chiamata delle Cento Scuole. Durante la sua vita i signori feudali non mostrarono troppo interesse per i suoi consigli, ma in seguito il suo pensiero divenne una vera e propria dottrina, codificata nei Cinque Classici che una leggenda gli attribuisce: uno di essi è il famoso I Ching, il Libro delle Mutazioni che ancor oggi va di moda anche da noi, per lo meno in certi ambienti.
I valori che i letterati confuciani predicavano, dalla pietà filiale all’antica virtù, erano sostanzialmente conservatori e reazionari: nel passato si trovava
il modello del presente, e ad esso bisognava uniformarsi. Il confucianesimo era dunque ottimo per la stabilità e l’immobilismo, e pessimo per il cambiamento e la rivoluzione.
Nel 213 a.C. Qin mandò al rogo i libri confuciani, e ai lavori forzati i letterati. Come notò Borges in La muraglia e i libri, la distruzione dei libri era un tentativo di abolire il passato: ma il passato è indistruttibile, e prima o poi ritornano tutte le cose, compreso il progetto di abolire il passato. Puntualmente, dopo la morte di Qin la tradizione si ristabilì: i confuciani riesumarono le copie dei libri che avevano nascosto nei muri e nelle tombe, l’imperatore Wu elevò nel 136 a.C. il confucianesimo a ortodossia del regno, e
verso il 600 d.C. fu istituita la pratica degli esami imperiali, che perdurò fino al 1905.
Gli esami di primo e secondo grado, per il diploma e la laurea, si tenevano ogni tre anni nelle varie province, simultaneamente. Per tre giorni e due notti i candidati venivano chiusi in celle sigillate e piantonate da guardie, e componevano temi sui classici. Le prove d’esame venivano poi ricopiate da scribi, affinché la calligrafia non rivelasse l’identità del candidato. I vincitori potevano accedere alle cariche civili e militari basse e medie, ed erano soggetti ad una verifica triennale.
Gli esami di terzo grado, per
il dottorato, si tenevano anch’essi ogni tre anni in un apposito palazzo del Collegio Imperiale di Pechino, nel cui cortile si può vedere ancor oggi la foresta di steli su cui era inciso il “programma d’esame”: i 600.000 caratteri che costituivano i testi classici. Le prove dei migliori candidati venivano esaminate dall’imperatore in persona, e nel vicino Tempio di Confucio si conserva tuttora la lista dei 51.624 letterati che superarono l’esame nelle ultime tre dinastie, dal 1276 al 1911, ottenendo così il titolo non ereditario di mandarino, che era la porta d’ingresso agli alti gradi dell’amministrazione.
Il Collegio e il Tempio sono appunto il primo dei due luoghi ai quali accennavamo: una sorta di monumento sepolcrale al sistema confuciano, oggi transustanziato nel sistema comunista e in quei “nuovi mandarini” che sono i funzionari del partito. Il secondo luogo è invece una tomba vera e propria: quella di Matteo Ricci, il primo missionario ai quali i cinesi avevano aperto le porte del Celeste Impero. Viste le qualità mnemoniche necessarie per passare gli esami imperiali, non stupisce che uno mnemonista sollevasse la curiosità dei funzionari. Soprattutto perché Matteo Ricci era un gesuita, ma non faceva miracoli: la sua memoria prodigiosa era il frutto di una tecnica precisa, che consisteva nell’associare vivaci immagini visive
alle cose e alle parole da ricordare, e nel disporle e conservarle in luoghi mentali dai quali potevano essere estratte a piacere. È proprio questa tecnica che dà il titolo alla biografia Il palazzo della memoria di Matteo Ricci di Jonathan Spence (Saggiatore, 1987). Ed è ancora questa tecnica che lo stesso Ricci descrisse nel 1596 in un libretto in cinese, a beneficio degli aspiranti mandarini.
Al gesuita la tecnica offrì la possibilità di arrivare a padroneggiare velocemente e perfettamente il complicato sistema di scrittura dei caratteri, e tenere in testa una biblioteca che gli sarebbe stato impossibile trasportare fisicamente in Cina. Qualche testo di matematica, in realtà, Ricci l’aveva portato con sé. Ma nel 1600, durante il suo viaggio di avvicinamento a Pechino, se li vide confiscare tutti. I volumi gli furono restituiti per errore l’anno seguente, ed egli poté così dedicarsi a tradurre con il suo discepolo Xu Guangqi i primi sei libri degli Elementi di Euclide, che furono pubblicati nel 1607.
Questa fu soltanto la più nota delle traduzioni matematiche di Ricci, che spaziarono dalla trigonometria all’algebra, e furono tutte effettuate allo stesso modo: spiegando il contenuto ai collaboratori cinesi, che poi trascrivevano ciò che avevano capito. Questi libri posero fine alla fase autarchica della matematica cinese e contribuirono
a procurare a Ricci una grande fama, testimoniata dal fatto che egli fu uno dei pochissimi stranieri ad avere l’onore di essere biografato nella storia ufficiale.
Forse ancor più che per i suoi lavori matematici, la gloria di Ricci derivava dalla sua famosa Grande Mappa dei Diecimila Paesi del 1602, in proiezione sferica schiacciata, che mostrò per la prima volta ai cinesi l’estensione del mondo conosciuto (abbellito da un’immaginaria isola del Friesland), e la posizione della Cina in esso. Una copia gigante del mappamondo, in sei pannelli separati, finì appesa alle pareti del palazzo imperiale a Pechino. Molte altre
riproduzioni circolarono liberamente, contribuendo a dare un grande impulso alla cartografia cinese.
A proposito di geografia, Ricci fu il primo a credere che la Cina a cui si arrivava per mare non fosse altro che il Catai a cui era arrivato Marco Polo per terra. Per confermare l’ipotesi il gesuita Benito De Goes intraprese nel 1602 un viaggio che doveva portarlo dall’India a Pechino. Morì nel 1607 prima di completarlo, ma riuscendo comunque a raggiungere la Grande Muraglia e a comunicare per lettera a Ricci di aver finalmente dimostrato che «non vi è altro Catai, né mai vi fu se non la Cina, e la città di Pechino
è Cimbalù, e il re della Cina
il Gran Cane».
Nonostante il lento progredire delle conversioni, a un certo punto Ricci sognò di poter convertire lo stesso imperatore Wanli: in realtà non riuscì mai nemmeno a vederlo di persona, e quando nel 1602 fu ricevuto a corte dovette accontentarsi di prostrarsi di fronte a un trono vuoto. La sua vita si chiuse a Pechino nel 1610, tappa finale di un viaggio di sola andata iniziato a Lisbona nel 1578. E oggi può riposare in pace nella sua tomba, disturbato solo sporadicamente da qualche confratello, o da qualche visitatore incuriosito dalla sua
singolare vicenda.
( 2. Continua)