Silvano Rubino, il Fatto Quotidiano 28/7/2014, 28 luglio 2014
ADDIO CARA BISTECCA DIVORATA DALL’HAMBURGER
Benvenuti nel regno della trasversalità. Accanto al manager in pausa pranzo coi colleghi siede la famiglia di immigrati, a poca distanza dai ragazzi che grazie al wifi compulsano smarphone e tablet un gruppo di bambini scatenati festeggia un compleanno, lungo la corsia del McDrive arrivano, per pranzo, furgoni di artigiani in giro per lavoro... Ne è passata d’acqua sotto i ponti da quando l’hamburger era roba solo per ragazzotti con il Moncler e le Timberland. Oggi il fast food non è più uno status symbol, ma un’abitudine sempre più diffusa, che sta incidendo sugli stili alimentari degli italiani e mettendo a rischio la supremazia della vecchia cara bistecca.
I numeri di uno studio di Alix Partners sono inequivocabili: nel quinquennio 2007-2011, se i ristoranti tradizionali arrancano con un calo del fatturato del 2%, quello dei ristoranti di catena è cresciuto del 13%, con addirittura un +30% per i fast food. Trend – spiegano da Alix Partners - assolutamente confermati anche per il biennio 2012-2013.
Per averne conferma basta guardarsi attorno: i nuovi fast food spuntano come funghi. L’ultimo di McDonald’s, a Monterotondo, nell’immediato hinterland di Roma, ha numeri da record: è il più grande ristorante della catena dotato di corsia drive d’Italia, con una superficie di circa 800 metri quadrati su due piani. E una cinquantina di persone impiegate. Il piano di espansione prevede, entro il 2015, un centinaio di nuove aperture (con circa 3mila nuovi posti di lavoro), portando a oltre 600 i Mac in Italia. Anche Burger King, altro colosso multinazionale, ha deciso di investire in Italia: 30 nuovi ristoranti nel 2014, secondo i dati forniti da Confimprese. Naturale che anche l’imprenditoria italiana non voglia stare alla finestra. Crescono le insegne indipendenti che propongono panini di qualità (vedi articolo a pag.....), ma fa numeri da boom anche una catena made in Italy, nonostante nome e “ambientazione” da cow boy: “Old Wild West” - oltre 100 ristoranti in tutto il Paese, 160 milioni di fatturato nel 2013 - è un marchio dell’azienda udinese Cigierre, specializzata nel cosiddetto “casual dining”.
FAST BATTE SLOW
Se aggiungiamo che anche Subway, catena specializzata nei sandwich che negli Stati Uniti ha superato McDonald’s per punti vendita, è sbarcata in Italia e si prepara a espandersi, ce n’è abbastanza per dichiarare che, in Italia, è tutt’altro che vinta la battaglia iniziata nel 1986 da Slow Food, associazione nata proprio “in reazione” all’apertura dello storico McDonald’s di piazza di Spagna, per far argine a un modello di alimentazione omologato, poco sano e lontano dalle nostre tipicità: «Certo», ammette Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, «i numeri lasciano pochi dubbi. Tuttavia, ci sono anche altri numeri, più incoraggianti, come l’aumento del consumo di prodotti biologici o dei nostri presidi slow food. Il modello del fast food, oggi, è avvantaggiato – oltreché da un potenza di fuoco mediatica non paragonabile alla nostra - da una serie di aspetti culturali e normativi. Il consumatore non viene messo nelle condizioni di fare una scelta davvero consapevole, non siamo abituati, a fare scelte in cui l’origine sul cibo sia uno degli elementi che mettiamo in campo. E anche la normativa non aiuta: l’etichettatura dovrebbe prevedere informazioni sulla reale provenienza, sul tipo di allevamento, su quanta acqua viene consumata per realizzare un prodotto ecc».
«La crisi», aggiunge Pascale, «non ha aiutato, ha spostato l’attenzione delle persone, che guardano più alla contingenza che a una “pianificazione” della propria alimentazione e quindi della propria salute. Ma il rischio è che poi si paghino altri costi, che sono costi sociali legati ai disturbi da sovrappeso, da disfunzioni metaboliche, sempre più diffusi soprattutto nelle fasce di reddito più basse».
Eppure, se anche McDonald’s negli anni ha voluto scrollarsi di dosso l’etichetta di venditore di junk food e ha costruito politiche di marketing basate proprio sulla qualità delle materie prime, sulla tracciabilità, sull’inserimento di nuovi piatti come insalate, frutta, yogurt, un po’ è merito di Slowfood e di altri soggetti che hanno diffuso una nuova cultura del cibo, della tracciabilità, del mangiar sano: «Offriamo prodotti i cui ingredienti sono in larghissima parte italiani e garantiamo filiere controllate e di qualità», spiega Emanuela Rovere, direttore marketing di McDonald’s Italia. «Basta questo per capire come la nostra identità sia cambiata: non più fast food ma “good food fast”».
Ma a Pascale non basta: «Sono scimmiottature: non è un valore di per sé la carne italiana, lo è se è davvero tracciabile».
Certo, a tutti piacerebbe mangiare sano, tipico e a chilometri zero, ma poi ci si scontra con il bilancio familiare. Il conto finale di un’osteria slowfood per una famiglia di quattro persone non è minimamente paragonabile con quello di un fast food: non a caso il target famiglie rappresenta il 29% della quota di mercato di McDonald’s, contro il 16 della ristorazione tradizionale. Non solo: per molte famiglie persino la carne comprata dal macellaio è diventata un lusso. Secondo un’indagine di Coldiretti, nel 2013 è crollato il consumo di carne degli italiani con un taglio del 7 per cento nelle macellazioni. E allora si capisce come un panino con la polpetta americana a poco più di un euro possa diventare una valida alternativa. «Da Old Wild West», afferma Marco Di Giusto, amministratore delegato di Cigierre, «con uno scontrino medio di 14 euro si può gustare un pasto completo. Non è vero che il consumatore in tempi di crisi cerca solo il basso costo, bensì un’offerta di qualità al giusto prezzo». Concorda Rovere, di Mac: «I consumatori scelgono ogni giorno quello che più aggrada senza sposare scelte ideologiche, secondo una logica inclusiva: oggi mi faccio un buon hamburger e domani vado a cercare il formaggio di fossa, ad esempio».
Ma se anche il mondo “slow”, attento a tipicità , prodotti locali e salubrità, cominciasse a ragionare in termini di low cost e di facilità di accesso per uscire dalla fase di contrapposizione ideologica con il fast food e mettersi a fargli concorrenza sullo stesso campo? «Ci stiamo lavorando», rivela Pascale. «Eataly, per esempio, mette in evidenza alcune positività della produzione italiana, ma non è ancora un modello di spesa quotidiana: vorremmo costruire un modello con accessibilità di prezzo e di vicinanza ai consumatori». Un sogno che si potrà realizzare, avverte Pascale, solo se i produttori italiani, finalmente, sapranno fare sistema e costruire una valida alternativa allo strapotere della polpetta.
Silvano Rubino, il Fatto Quotidiano 28/7/2014