Francesco Guerrera, La Stampa 28/7/2014, 28 luglio 2014
L’ANNO DURO DELLE FUSIONI
Per misurare la salute di Wall Street, le bisteccherie di New York sono meglio della Borsa. Le azioni salgono e scendono in maniera misteriosa ma i venditori di carne pregiata non
mentono.
Quando il settore bancario tira, i saloni all’antica di Peter Luger – il ristorante storico di Brooklyn – o le panche super-trendy di American Cut – il nuovissimo tempio del manzo vicino alla punta sud di Manhattan– si riempiono.
Quando signori in giacca e cravatta, spesso accompagnati da signorine senza tanti vestiti, ordinano tagliate mastodontiche, si respira già aria di boom.
La settimana scorsa, mi sono trovato nella saletta privata di uno di questi locali classici con due banchieri d’affari. Erano euforici, questi signori della finanza, anche prima di aver stappato il vino. «Ma guarda i numeri», mi ha detto uno. «I numeri non mentono».
Si riferiva al momento di grazia nel mercato delle fusioni. Dopo cinque anni bui in cui aziende spaventate dalla recessione e investitori feriti dalla crisi non volevano fare assolutamente nulla, gli ultimi sei mesi sono stati un tourbillon di affari, offerte pubbliche di acquisto e raid societari.
L’impatto su economia, mercati e società non è chiaro, e c’è sempre la possibilità che il boom attuale si riveli un fuoco di paglia ma i numeri, come diceva il mio banchiere, sono da Paperone. Il volume mondiale di fusioni ha già superato i duemila miliardi di dollari quest’anno. E’ il ritmo più veloce dal 2007 – l’ultimo anno d’oro prima della crisi – e già si parla di un nuovo record annuale per il 2014.
Interi settori dell’economia mondiale, dall’industria farmaceutica a quella del tabacco, stanno cambiando faccia grazie a fusioni enormi. In Europa, una azienda-guida come la Alstom, il gigante industriale francese, sta per essere comprato dalla General Electric. Mentre in America il mondo della comunicazione, dai film alla televisione, è sull’orlo di una trasformazione che potrebbe essere epocale. E i titani della tecnologia – Google, Apple, Microsoft e via dicendo – stanno partecipando a una corsa sfrenata per comprare società più piccole e aggiungere nuovi gadget, software e applications al menu che offrono a consumatori sempre più sofisticati.
I nomi dei protagonisti non sono proprio famosissimi – AbbVie e Shire Pharmaceuticals, Reynolds Tobacco e Lorillard – ma le voci di corridoio parlano di una fusione tra due giganti della birra e chissà, magari pure di un connubio transatlantico tra AT&T, il gigante della telefonia Usa, e la rivale europea Vodafone.
Perché proprio ora? I motivi sono abbastanza banali. L’aumento placido e continuo nei mercati azionari permette a società di pianificare con calma e di pagare con azioni di gran valore. La ripresa economica molto lenta costringe amministratori delegati a considerare fusioni per far crescere le proprie società e fare contenti investitori che hanno sempre meno pazienza. E, in alcuni settori come quello farmaceutico, un cavillo del sistema fiscale americano permette a società Usa che comprano una rivale straniera di spostarsi nel suo Paese, evitando le tasse dello Zio Sam.
Non tutte le ragioni sono logiche. Come ha spiegato Laurence Goldberg, uno dei banchieri di punta della Barclays, al Wall Street Journal: «Fare gli affari è contagioso. Più affari ci sono, più affari ci saranno».
E’ facile farsi prendere la mano dalle fusioni. E’ la parte più interessante dei tanti compiti svolti da Wall Street, una partita di scacchi tra venditori e compratori che accattiva investitori, speculatori e giornalisti. E’ uno dei pochi momenti in cui il pubblico ha un’idea chiara delle strategie, rischi e paure dei capitani d’industria. Ed è un angolo del mondo degli affari in cui le personalità e il fattore umano contano più della fredda matematica e noiose presentazioni power point. C’è sempre una storia interessante dietro a una fusione: cene intime tra amministratori delegati, incontri segreti, nomi in codice, problemi dell’ultima ora e così via.
Ma chi ci guadagna, a parte i banchieri e i bistecchieri? E’ una domanda difficile. Al giorno d’oggi, molte fusioni portano a perdite di posti di lavoro o a cambiamenti anche drammatici nel modus vivendi di società e della società. Allo stesso tempo, mettere insieme due aziende è l’espressione più pura dell’energia darwiniana che ha permesso al capitalismo d’imporsi su altri sistemi economici.
Ogni fusione è una mini-rivoluzione industriale, una svolta inaspettata nel Dna dell’economia mondiale che ha ripercussioni su una miriade di altri agenti economici. Se AT&T e Vodafone si uniscono, la vita di milioni di utenti su due continenti potrebbe cambiare: dal modo in cui comunicano al modo in cui pagano per quella comunicazione.
Gli studi accademici dicono che più della metà delle fusioni «falliscono» ma il fallimento è parte integrante del ciclo naturale del sistema finanziario. Come i tonfi del mercato e le crisi economiche, il capitalismo ha bisogno di periodiche catarsi, di momenti di purificazione dagli eccessi a cui è prono.
Il che non vuol dire che non ci siano fusioni sbagliate, in cui investitori, e a volte interi Paesi, perdono molto. Ma anche quelle unioni sballate – e quelle perdite finanziarie – svolgono una funzione importante: chi non gioca non può vincere.
La natura, secondo Aristotele, aborre il vuoto. Il capitalismo, secondo Wall Street, aborre la stasi.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72.
Francesco Guerrera, La Stampa 28/7/2014