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 2014  luglio 28 Lunedì calendario

UNA GOCCIA CHE SCAVA: L’ANOMALIA DI UN ITALIANO CRESCIUTO NELLA FATICA

[Vincenzo Nibali] –
PARIGI
Guardo Nibali sul podio e penso agli italiani che lo hanno preceduto, solo sei in più di un secolo. Non è facile vincere il Tour, non è mai stato facile. Con quelli degli anni lontani (Bottecchia, Bartali, Coppi, due vittorie ciascuno) non si possono fare paragoni. Con quelli dell’ultimo mezzo secolo sì. Nencini vinse nel ‘60 senza successi di tappa. Discesista leggendario, Gastone. Vinse attaccando nella discesa di un colle senza storia, il Perjuret, che da allora una storia ce l’ha: Rivière, più forte a cronometro, volle tenere il suo passo, sbagliò una curva e in un burrone finirono il suo Tour e la sua carriera. Nencini fumava e a cena, anche durante le corse a tappe beveva volentieri vino rosso. Come Bartali, del resto.
Gimondi era un predestinato, aveva vinto il Tour dell’Avvenire, a quello dei grandi nemmeno doveva partecipare dopo il terzo posto nel Giro di Adorni. Ci andò quasi di controvoglia, in sostituzione di un compagno che aveva mangiato frutti di mare avariati. Fai la prima settimana e poi torni a casa, gli dissero i fratelli Salvarani. Però nella prima settimana Gimondi conquistò la maglia gialla e seppe difenderla dagli attacchi di Poulidor. Come Gimondi, Nibali non ha sprint, ma è stilisticamente più bello sulla bici (lo dice lo stesso Gimondi), più forte in salita e meno a cronometro.
L’ultimo in giallo a Parigi prima di Nibali è stato Pantani, sedici anni fa. Il ragazzino Nibali correva con la bandana per imitare Pantani, ma si tratta di due corridori molto diversi, come sono diversi i loro successi in terra di Francia. Il Tour del ‘98 fu devastato dallo scandalo- Festina, dal ritiro delle squadre spagnole, dagli arresti, dalle perquisizioni. A un certo punto non si era nemmeno sicuri che la corsa riuscisse ad arrivare a Parigi. A Parigi, il direttore Leblanc ringraziò Pantani per aver salvato la situazione. Sembrava una svolta, quella, e Pantadattilo il corridore antico, lo scalatore puro che limitava i danni e aspettava le salite per scatenarsi.
Nibali come corridore è lontano da Pantani, il suo idolo. È vero che tre delle sue quattro tappe le ha vinte in salita, ma con distacchi non pesanti sulla concorrenza. Mai finito in rosso, ha detto. Sempre pensato al giorno dopo, ha aggiunto. Nibali non umilierebbe mai un gruppo intero come fece Pantani a Oropa. E Nibali non ha, per ora, la popolarità di Pantani, forse non l’avrà mai perché è meno attore e colpisce meno la fantasia. Pantani diceva che il momento più bello non è quando vinci, ma quando stacchi tutti. Aveva un modo di esprimersi rabbioso e solitario sui pedali, ricercato e quasi lirico nelle parole («vado forte per abbreviare la mia agonia»). Raramente esultava su un traguardo, era teatrale (teatro drammatico) nella sfrontatezza della superiorità e nell’esibizione della sofferenza. Così innamorato della solitudine da farla diventare come un cappio, negli anni più bui. Nibali non è un ciclista che prende alla pancia, e di lì altri organi interni. Non ha l’aura da arcangelo caduto, non ha tatuaggi, bandane, orecchini. Non fa trasparire rabbia, emozione, sembra non sapere cosa fare delle braccia, sul traguardo. Una volta mima il ciuccio, un’altra indica il cuore, un’altra ancora tiene le braccia lungo i fianchi. Spesso è sull’attenti. Sull’attenti, e prima ancora sul chi vive, ha messo gli altri, però. Partito come terzo incomodo tra i più quotati Froome e Contador, eccolo sul podio con Peraud e Pinot. Due nomi che al grande pubblico diranno poco o nulla e che rischiano di sminuire la bellezza di un’impresa fatta di piccole imprese, sempre intelligenti, tempestive e non casuali.
L’impresa più grande, quella che gli ha fruttato più vantaggio, Nibali l’ha compiuta sul pavé, come un altro suo idolo giovanile, Francesco Moser. Questo ci porta a considerare un corridore singolare Nibali, che può essere accostato per certi versi a Pantani, per come pedala facilmente in salita, e per altri a Moser, per come viaggia sulle discese e sul pavé. Il bello è che per vincere il Tour Nibali non ha dovuto ricorrere alla sua abilità di discesista. Gli sarebbe servita per inseguire Froome o Contador? Può darsi. Ma che Froome si trovasse male sul pavé era ampiamente previsto, non padroneggia bene la bici, mentre è da dimostrare che Contador gli avrebbe recuperato quanto aveva perso sul pavé. Solo due giorni senza maglia gialla addosso: non si può dire che Nibali sia sbucato dal nulla. Presenza costante e non solo per controllare. Ma per dare colpi. Ha vinto da finisseur a Sheffield, da scalatore sui Vosgi, sulle Alpi, sui Pirenei, ha vinto a nord, a est, a sud. Ha dimostrato serietà impegnandosi anche in una cronometro che non avrebbe aggiunto né tolto nulla al suo Tour.
Ci sono macchine che informano sui battiti cardiaci, sulla potenza espressa in salita, sulla soglia della fatica. Non ci sono più corridori che fumano o che bevono vino rosso al Tour. Sono tutti programmati, pesati, monitorati, guidati via radio o istruiti dal computer sul manubrio. Non ci sono, ed è un bene, macchine che misurino la dignità, la costanza, la serietà, la capacità di sacrificarsi, il coraggio e la fantasia. Non ci sono macchine che danno la proporzione dei sogni che si sognano da bambini o da adulti. Ed è un bene che non ci siano, perché tutte le cose che ho elencato le possono valutare solo gli uomini, se vogliono, e gli uomini si sa che possono sbagliare, ma almeno hanno un vantaggio sulle macchine. Gutta cavat lapidem, avrebbero sentenziato i latini, perché è così che Nibali vincit Galliae Cursum. Un po’ alla volta, a goccioline o a goccioloni. Come un po’ alla volta si era confrontato, crescendo col Tour: 20, 7, 3, 1. E un po’ alla volta aveva raccolto.
Professionista dal 2005, tenuto, anche troppo, nell’ombra di Basso. Nel 2008 un addetto ai lavori, dopo un attacco dissennato in una classica del Nord, aveva suggerito a Nibali di darsi all’agricoltura. Dal 2010 (Vuelta) aveva cominciato ad assaporare le grandi vittorie. Nel 2013 Giro, adesso il Tour.
Come solo Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault e Contador. Ma andiamoci piano con i proclami dell’Italia che vince. Cerchiamo di non salirgli tutti sulla canna della bicicletta, politici e tifosi, giornalisti e sociologi. L’Italia che vince qui non è quella delle scorciatoie e delle furbate, dei talk show politici e dei vip veri o presunti, delle indignazioni che durano un giorno e degli aiutini chiesti per una vita. È l’Italia delle tredici ore in treno tra Reggio Calabria e Mastromarco. È l’Italia con pochi soldi e tanti sogni, è l’Italia che si riconosce e talvolta si esalta nel lavoro e nel sacrificio. È l’Italia che sta nel retrobottega, in vetrina servono colori più vivaci e modelli più ammiccanti. I valori di Nibali, della sua famiglia, sono gli stessi di Vanotti e vengono buoni per la fanfara dei buoni sentimenti, che suonerà per un giorno o due perché il pallone reclama spazio.
Nibali è stato il più continuo e forte in questo Tour e da questo Tour esce molto più forte. Ci riproverà, con la schiva, serena, eccezionale normalità che è il segno che caratterizza il suo essere campione. Uno che, in piena luce, strizza gli occhi nella lunga faccia andalusa e sembra dubbioso: ma tutta questa gente è qui per me? Sì, e come giusto batte le mani. Altro da fare non c’è. Gianni Mura, la Repubblica 28/7/2014