Federico Rampini, la Repubblica 28/7/2014, 28 luglio 2014
COM’ERA VERDE LA SILICON VALLEY
Che cosa succede se si guasta la macchina da soldi della Rete? Da qualche tempo l’economia digitale occupa le prime pagine dei giornali non solo per collocamenti in Borsa miliardari, innovazioni futuristiche, start-up fondate da imprenditori-ragazzini, ma anche per annunci ben più duri: licenziamenti in massa, perdite, ristrutturazioni. Gli esperti si dividono, tra chi loda la flessibilità tipica della «distruzione creativa», e chi invece intravede una «stagnazione secolare» all’orizzonte.
La settimana scorsa si è chiusa con Wall Street in allarme per i guai di Amazon. Il più grande supermercato online, che dai libri si è allargato fino a vendere di tutto, continua ad aumentare le sue perdite. Fin qui Amazon faceva notizia per la sua aggressività, per esempio i metodi spietati che usa per piegare al suo volere gli editori di libri (è arrivata a sabotare le vendite dei titoli Hachette per mettere in ginocchio la casa editrice). Ma come imprenditore, il fondatore e capo di Amazon, Jeff Bezos, era circondato dalla venerazione. Ora sono gli investitori a tremare. Il fatturato di Amazon continua a crescere, 20 miliardi di dollari nell’ultimo bilancio trimestrale, ma di profitto non c’è traccia. Anzi, le perdite aumentano, a 126 milioni in un trimestre. La Borsa ha reagito “cancellando” 15 miliardi di capitalizzazione di questo gruppo. Il modello Bezos è rimasto fedele a se stesso: lui punta a divorare quote di mercato, accaparrare clienti, distruggere i concorrenti; dopo aver fatto terra bruciata attorno a sé verrà il momento di raccogliere i profitti. Ma dopo averlo tanto osannato, i mercati cominciano a temere che il profitto non arrivi mai. Tanto più che Amazon perde quota nell’unica nicchia redditizia: “the cloud”, la nuvola, cioè l’attività che consiste nell’affittare ad aziende clienti la propria capacita` di memoria e di calcolo, un pezzetto dei propri server. Nel “cloud” altri si fanno strada con successo, dai grossi nomi come Google ad imprese molto più piccole.
Amazon non è arrivata al punto da dover annunciare maxi-licenziamenti, anche se sperimenta molte tecnologie che eliminano manodopera umana, dai droni per le consegne ai robot per la gestione dei magazzini-deposito. Ma altri gruppi hi-tech stanno tagliando gli organici senza pietà. Accade a Seattle, la città della West Coast settentrionale dove hanno sede Amazon e Microsoft, così
come più a Sud nella Silicon Valley vera e propria. L’azienda fondata da Bill Gates licenzia 18.000 dipendenti, il 14% di tutta la sua forza lavoro. Un’ecatombe, senza precedenti nei 39 anni di storia di un’azienda che all’apice del suo successo era diventata “sinonimo” dell’informatica. È più del triplo dei licenziamenti che vennero decisi dalla stessa Microsoft cinque anni fa, al termine della più grave recessione dalla nascita dell’azienda. Il colpo più duro si concentra sui dipendenti europei della Nokia, colosso finlandese della telefonia mobile, la regina decaduta dei cellulari ormai in preda al declino. La divisione della Nokia che produce telefonini fu comprata da Microsoft, e il grosso dei licenziamenti (12.500) avverranno proprio lì. Restano pur sempre altri 5.500 licenziamenti che riguardano proprio la casa madre americana, a riprova che l’economia digitale non è solo una macchina che crea ricchezza e lavoro.
La crisi di Microsoft è relativa — l’utile aumenta… anche grazie ai licenziamenti — ma conferma quanto sia “instabile” ogni equilibrio dell’industria hi-tech. Le gerarchie, i rapporti di forze tra i big sono esposti a shock improvvisi. Le fortune degli imprenditori possono cambiare repentinamente, strategie consolidate vengono travolte da errori di previsione e rovesci brutali. È solo pochi mesi fa che l’acquisizione di Nokia da parte di Microsoft fece scalpore. Quell’operazione confermava la centralità degli smartphone nell’economia digitale. Da quando i cellulari hanno iniziato a soppiantare i personal computer come strumento di accesso a Internet, tutti hanno dovuto adattare le proprie strategie: da Microsoft a Google a Facebook. L’azienda fondata da Bill Gates, in particolare, nel suo fatturato e nei suoi utili è ancora troppo dipendente dalla vendita di software per computer.
Nella Silicon Valley, che comincia a Sud di San Francisco, una vicenda esemplare è quella di Hewlett Packard. Questo colosso, designato dalle iniziali Hp, ha una storia che quasi coincide con la genesi della Silicon Valley in quanto distretto industriale leader nelle tecnologie avanzate. Gran parte dell’elettronica moderna nella sua evoluzione è stata accompagnata dall’ascesa di Hp e di alcuni giganti vicini come Intel. Eppure da anni Hp è una macchina di distruzione dell’occupazione. Marchio ancora diffuso nei personal computer, nelle macchine da ufficio multi-uso (fotocopiatrici più fax più stampanti più scanner), Hp non si è mai veramente ripresa dall’urto competitivo delle delocalizzazioni asiatiche, che hanno trasformato lo hardware in una commodity, prodotti di massa a basso prezzo e minimo margine di utile. Hp all’inizio di questa estate ha annunciato che licenzierà dagli 11.000 ai 16.000 dipendenti, che vengono ad aggiungersi ai 34.000 posti già eliminati. Il 10% dei dipendenti sono condannati, è il prezzo da pagare perché il gruppo continui a presentare dei bilanci in utile. Un’emorragia di occupazione che sembra inarrestabile. E tutt’altro che rara. A poca distanza dal quartier generale di Hp c’è quello di Yahoo, un’azienda che sta finendo di smaltire duemila licenziamenti, pari al 14% di tutti i suoi dipendenti. Perfino i piccoli e i neonati talvolta licenziano: lo specialista dei giochi online Zynga ha mandato via l’anno scorso 320 persone che rappresentano il 18% dell’organico.
In quanto a “sua maestà” Apple, che molti considerano ancora un modello da emulare nella Silicon Valley, il suo ultimo bilancio riserva una sorpresa. Apple piace ancora alla Borsa, i suoi utili sono in ottima salute, ma solo grazie alla Cina. Dopo un accordo con il più grande operatore telecom della Repubblica Popolare, è scoppiata sul mercato cinese una Apple-mania, con aumenti vertiginosi negli acquisti di iPhone, nonostante il costo molto elevato rispetto ai concorrenti locali o sudcoreani. Bel colpo, che ridà slancio all’azienda fondata da Steve Jobs proprio mentre sembrava appannarsi la sua vena innovativa. Ma sarebbe pericoloso ignorare che dietro l’exploit cinese non c’è altro di cui rallegrarsi: nei mercati più avanzati, Usa in testa, ci sono segnali di stanchezza dei consumatori sia negli acquisti di iPhone che di iPad.
La lezione è che non esistono vantaggi competitivi acquisiti per sempre. Perfino aziende adolescenti come Facebook vivono come un incubo il rischio di obsolescenza: il social network ha il vizio genetico di essere nato in un’epoca in cui si usava ancora il personal computer per collegarsi a Internet, mentre oggi i giovani abbandonano in massa i computer e usano prevalentemente gli smartphone. La rivoluzione “architettonica” per passare da un design dei siti computer-centrico ad uno smartphone-centrico, mette a dura prova anche aziende dove l’età media dei manager non raggiunge i trent’anni. La velocità del cambiamento è una delle spiegazioni delle ondate di licenziamenti: le imprese hi-tech usano la flessibilità estrema del mercato del lavoro americano per riadattare senza sosta la tipologia dei talenti che impiegano. Un’altra spiegazione, più strutturale, punta verso la teoria della “stagnazione secolare” di Larry Summers: l’idea cioè che rischiamo di entrare in un ciclo dove la spinta alla crescita proveniente dalle innovazioni ha esaurito i suoi effetti.
Federico Rampini, la Repubblica 28/7/2014