Egle Santolini, La Stampa 27/7/2014, 27 luglio 2014
DIETRO PIZZI E CRISTALLI LA NOBILE CRUDELTÀ DEL GENIO DI VISCONTI
«Preventivo inviatomi Notarianni est folle et mie richieste anche con Lancaster ottengono solo ilarità. Per favore studia possibilità eliminare scene et situazioni maggiore costo et lunghezza parlandone come tua idea con Visconti». Il grido di dolore a Suso Cecchi d’Amico, via cablogramma da New York, era del produttore Goffredo Lombardo, in missione dai tycoon della Fox a raccogliere finanziamenti per Il Gattopardo. Con gli americani sarebbe arrivata anche la scelta del protagonista: Burt Lancaster, appunto, all’inizio mal sopportato dal regista che per orgoglio non voleva un attore scelto dalla produzione e che comunque avrebbe preferito Laurence Olivier, indisponibile perché malato.
Era il 20 gennaio 1962 e il capolavoro di cui il mondo si bea da cinquant’anni nasceva con un’aura di esosità, come il capriccio di un genio incontentabile che volesse fare i conti, fino all’ultimo pizzo inamidato, con le proprie origini aristocratiche. Eppure Visconti era arrivato alla sfida soltanto per terzo. Dopo Mario Soldati, che si ritirò persuaso di non poter capire il Sud, e dopo Ettore Giannini, estensore di una versione molto libera del romanzo di Tomasi di Lampedusa che non poteva soddisfare il produttore, preoccupato di non scontentare i lettori. L’opera dell’umbratile intellettuale era stata rifiutata dai principali editori italiani per approdare infine, su sollecitazione di Giorgio Bassani, alla Feltrinelli, poco dopo l’avventurosa pubblicazione del Dottor Zivago.
Accolto con sospetto dal Pci in quanto decadente e rinunciatario, poi sdoganato da Gyorgy Lukacs che lo definì l’unico romanzo storico importante di quegli anni, Il Gattopardo finì in tutte la case italiane dove ci fosse non dico una libreria ma uno scaffale. Naturale che fosse opzionato dal cinema ancor prima della vittoria allo Strega. Meno ovvio che diventasse un film cult capace di sfidare confini e generazioni, quello con cui il cinefilo globale Martin Scorsese sostiene di «vivere ogni giorno».
Visconti, dunque. Che legge e rilegge il libro, che comincia a farlo interagire con suggestioni proustiane e verghiane, che si entusiasma alla visione di un documentario televisivo di Ugo Gregoretti sui luoghi di Tomasi. Fin da subito capisce che il centro è «la storia di un contratto matrimoniale. La bellezza di Angelica data in pasto alla voracità di Tancredi. Ma Angelica non è soltanto bella: ella sa bene di che pasta è fatto un tale contratto e l’accetta, anche se quello che a prima vista sembra dominare è soltanto un purissimo sentimento d’amore».
In Tancredi, nel film un Alain Delon di fascino assoluto e sfrontato, riverberano invece, «già all’inizio della deformazione e della corruzione, quei lumi di civiltà, di nobiltà e di virilità che l’immobilità feudale ha cristallizzato e cicatrizzato senza speranza di futuro nella persona del principe Fabrizio».
Suso Cecchi d’Amico, già sceneggiatrice con Visconti di Bellissima, Senso e Rocco, e subito chiamata dal conte a lavorare con lui in un’équipe a cui poi si unirono Enrico Medioli e Pasquale Festa Campanile, ci raccontò nel 1996 in un’intervista per Specchio che «la decisione drastica e fondamentale venne presa presto da Visconti in persona: l’eliminazione netta dei due ultimi capitoli, la morte del principe e il disfacimento della casa dei Salina. Risolse tutto nel ballo, cioè aprendo nella sequenza più lunga e complessa delle finestre narrative che ci facevano capire come si sarebbero evolute le vicende dell’aristocrazia siciliana, e aggiungendo il tocco funebre dell’incontro fra il principe e il prete con l’Estrema unzione».
Quanto a quelle riprese di battaglia che tanto preoccupavano Lombardo, «all’inizio Visconti aveva pensato a una soluzione quasi modesta: due soldati, un campanello... Poi in Sicilia s’innamorò del paesaggio e delle possibilità sceniche che gli offriva».
Non solo guerra, ma pace: e furono cinque cantieri diversi e contemporanei per lo scenografo Mario Garbuglia, e la casa del principe a Boscogrande, e Donnafugata riambientata a Ciminna, dove gli esterni della villa vennero costruiti ex novo, e l’osservatorio astronomico, la location dell’ingresso dei garibaldini a Palermo, Palazzo Gangi sfondo del ballo. I fiori fatti arrivare a quintali quotidianamente da Sanremo, i lampadari illuminati con candele vere che si squagliavano e dovevano essere sostituite ogni ora, la sublime follia delle 50 lavandaie che sul set rinfrescavano i guanti bianchi delle comparse. Alla fine, un costo di tre miliardi di lire, tutti meravigliosamente spesi.
Ha scritto Claudia Cardinale: «Sotto i merletti, le sete, i pizzi, i punti di Venezia o d’Alençon, ero compressa in un corsetto d’epoca di una crudeltà implacabile. Quella era la magia del cinema con Visconti. Sotto l’apparente facilità, sotto l’eleganza naturale, si celava la sofferenza».
Egle Santolini, La Stampa 27/7/2014