Antonio Gnoli, la Repubblica 27/7/2014, 27 luglio 2014
CARLO CELLUCCI
[Intervista] –
C’è qualcosa di insolito nell’iniziare una conversazione con un grande logico matematico rievocando la figura di Lucio Colletti. Ma dopotutto, sia pure da posizioni diverse, entrambi conoscemmo quel personaggio brillante che insegnò filosofia a Roma, seppellì il marxismo e morì, dopo essersi tuffato, con prepotente vitalità, in una piscina termale: «Per come lo ricordo, Colletti fu la somma di alcuni geniali fallimenti», dice Carlo Cellucci, tra i massimi esperti internazionali di logica. «Dall’università del Sussex, a Brighton, dove insegnavo, gli spedii una letterina. Caro Lucio, qui c’è uno che ti somiglia in modo impressionante: un ex marxista, cinico, disincantato, intelligentissimo, un po’ sfaticato, come te. Si chiama Imre Lakatos».
Imre fu l’allievo prediletto di Karl Popper. Tra gli anni Sessanta e Settanta contribuì al grande dibattito epistemologico, nel quale filosofi e storici si interrogavano su che cosa fosse la conoscenza scientifica: «Dopo il ’68 anche la scienza cominciò a tener conto dei grandi rivolgimenti. Furono Lakatos, Feyerabend, Kuhn gli epistemologi che scossero un certo ron ron assai diffuso, specialmente in Italia».
Che tipo di cultura dominava nel nostro paese?
«Abbastanza provinciale. Imperava ancora l’idealismo. E gli insegnanti delle facoltà di filosofia erano spesso disinformati su ciò che accadeva nel mondo. Naturalmente c’erano le eccezioni. Tra queste Ludovico Geymonat con il quale mi laureai in logica matematica».
Un’eccezione in che senso?
«Era molto aperto. Spediva i suoi allievi a specializzarsi in Germania e in Inghilterra. Durante la guerra era stato partigiano. E questo lato un po’ avventuroso e brusco lo usava con noi, in maniera anche seducente. Fu Vittorio Somenzi che insegnava filosofia della scienza a Roma a mettermi in contatto con lui. Somenzi si disinteressava di logica».
A Roma, dove insegnava, Somenzi fu una leggenda.
«Fu tra i primi a occuparsi di cibernetica, di rapporti tra mente e cervello. Era stato colonnello dell’aeronautica e durante la guerra aveva partecipato alla Resistenza. Era un uomo schivo, bello, taciturno. E soprattutto mi parve un corpo estraneo nella facoltà romana di filosofia».
Estraneo rispetto a cosa o a chi?
«Al resto dei docenti. Filosofia allora voleva dire Ugo Spirito, Franco Lombardi o, al meglio, Guido Calogero. L’idealismo, in varie salse, cui accennavo poc’anzi».
Anche lei avrebbe finito col diventare un corpo estraneo. Come è nata la sua passione per la logica?
«Al liceo leggevo, per conto mio, libri di matematica. Buona divulgazione. Niente a che vedere con i testi scolastici. A un certo punto mi resi conto che più andavo avanti nella lettura e meno capivo cosa giustificasse le costruzioni matematiche e fisiche. Qualcosa di analogo era accaduto a Bertrand Russell quando, studiando gli Elementi di Euclide, chiese al fratello: su cosa poggiano gli assiomi?».
E quale fu la risposta?
«Gli rispose: non te lo so dire. Devi solo accettarli. E Russell, che raccontò questo episodio, commentò che da allora per tutta la vita fu tormentato da un profondo senso di insicurezza. Ecco la ragione per cui pensavo che nella logica avrei cercato le risposte giuste».
Le ha trovate?
«No. Credo di aver passato tutta la mia vita a provare di capire il mondo e, al tempo stesso, a distruggere tutte le spiegazioni che non mi soddisfacevano. Comprese le mie».
C’è molto rigore oppure ossessione in questo atteggiamento.
«Forse entrambi. Un’immagine di me bambino mi tormenta. Durante la guerra, con mia madre, ci rifugiammo in un paesino ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo. Finito il conflitto tornammo a Santa Maria Capua Vetere, dove vivevamo, con un camioncino di fortuna che attraversò la città di Cassino. O meglio ciò che ne restava. Vedemmo solo un cumulo di macerie. Quella distruzione colpì la mia fantasia. Pensai che l’uomo e la sua storia fossero un alternarsi continuo di costruzione e distruzione e che anche le scienze non facevano eccezione. Pensai a quella eterna sfida che ogni conoscenza rappresenta e provai un senso di sgomento».
Suo padre non c’era con voi?
«Era stato richiamato in guerra. Nella vita civile era un avvocato. Mio nonno giudice. Insomma, una famiglia borghese. Papà esercitava a Napoli, quando divenne avvocato di cassazione ci trasferimmo a Roma. Qui feci l’università, ma alla fine mi laureai, come le dicevo, a Milano con Geymonat. Grazie al quale finii per qualche anno a Oxford».
Che ambiente trovò?
«Era ancora la culla della filosofia analitica. Un ambiente sostanzialmente chiuso. Quando nel 1970 morì Russell, mi divertii a spulciare i necrologi che Oxford gli dedicò. Alcuni erano molto acidi».
Perché?
«Erano l’effetto di un odio sotterraneo. Russell aveva più volte scritto e dichiarato che la filosofia analitica era morta. E la cosa divertente è che lui, insieme a Whitehead, con i Principia Mathematica l’aveva fondata».
Anche Russell era un distruttore.
«Più di quanto non si pensi. Era un uomo profondamente deluso dalla svolta che alla filosofia analitica aveva impresso Wittgenstein con il ricorso al linguaggio ordinario. Russell scrisse che Wittgenstein aveva trasformato la filosofia in un passatempo di cui discutere all’ora del tè. E questo provocò l’ira del gruppo di analitici».
Chi c’era in quel gruppo?
«Strawson, Ryle, Hare, Hampshire. Tutta gente interessata al linguaggio ordinario. Russell diceva: tradizionalmente la filosofia si è sempre occupata di grandi problemi, ora è interessata alle cosucce. Ci intrattiene su qualche dettaglio linguistico».
Cosa voleva dire “linguaggio ordinario”?
«Non significava l’attenzione ai problemi della vita quotidiana, ma ai problemi filosofici analizzabili non con il linguaggio tecnico e artificiale della matematica ma con quello ordinario».
Era un lavoro sui contenuti e le forme linguistiche?
«Sì, ma tutto estenuato dentro una miriade di piccoli esempi francamente inutili».
Insomma Oxford non fu così stimolante?
«Al contrario. Conobbi e divenni amico di Michael Dummett. Molto singolare. La prima volta che mi vide, disse: lei gioca a bridge? No, risposi. Non credo che farà molta strada da noi, replicò. E poi spesso invitavano per un seminario un professore che veniva da fuori. Ricordo Chomsky che tenne un corso per tre mesi. L’aula che conteneva quasi un migliaio di persone era sempre piena. Lui era un vero provocatore intellettuale. Ed era affascinante vedere i nostri professori prepararsi a contrastarlo con tutta una serie di obiezioni».
C’era ancora la concorrenza con Cambridge?
«No. Del resto a Cambridge si occupavano soprattutto di filosofia della scienza».
Lì era morto Wittgenstein. Come giudica il suo operato?
«Non l’ho conosciuto. Morì nel 1951. Però ho frequentato qualche suo allievo. E ho l’impressione che fosse considerato una specie di santone. In molti lo scimmiottarono. Senza neanche sfiorare la sua acutezza. Non so dare torto a Stephen Hawking quando scrisse che la filosofia era morta per colpa di Wittgenstein. Fu uomo di genio. Singolare. Nevrotico».
«Alcuni in maniera indiscutibile».
«Kurt Gödel fu notevolmente strambo. Era terrorizzato che lo buttassero fuori dall’università di Princeton dove lavorava. Quando qualcuno bussava al suo studio si rifugiava in cantina. Aveva una moglie pittoresca: Adele Porkert. Era stata una ballerina di night club a Vienna. La sposò e per ragioni razziali emigrarono negli Stati Uniti. Negli ultimi anni Gödel aveva paura di essere avvelenato. Non mangiò quasi più e nel referto del decesso c’è scritto che morì per denutrizione».
Fu lui a mettere in crisi la matematica con il teorema dell’incompletezza. Cosa voleva dire?
«Da Euclide in poi si era pensato che l’ideale della conoscenza fosse la deduzione da principi certi. Perfino Spinoza scrisse la sua Etica modellandola sui Principi di Euclide. Il teorema di Gödel mandò all’aria tutto questo facendo vedere che nessun sistema di conoscenza può essere soddisfatto da un insieme di assiomi. Era un ragazzo quando, partecipando a un congresso in onore di David Hilbert, enunciò il suo teorema. Il solo a intuirne l’importanza fu John von Neumann. Rudolf Carnap, che era presente, capì ben poco delle conseguenze».
Gödel era il barbaro che distruggeva la cittadella della matematica.
«Fu devastante e salutare la sua opera di distruzione. Nell’Ottocento Georg Cantor immaginò che per rafforzarne le fondamenta le matematiche si dovessero unificare in una sola teoria: la teoria degli insiemi. Ma gli “insiemi”, come tante altre cose, furono messi in crisi dal lavoro di quel giovane strambo e terrorizzato da tutto».
L’idea di verità non ne usciva ridimensionata? Non c’era il rischio, come si dice, di buttare l’acqua sporca col bambino?
«Molti matematici e logici hanno continuato a far finta di niente per anni».
Però da un altro versante anche Russell aveva compreso che alla base della matematica ci potevano essere delle serie contraddizioni.
«Già David Hilbert si chiese come era possibile che proprio dove avrebbe dovuto esserci la massima certezza lì il sistema non reggeva. Tanto è vero che cominciò a indossare i panni del filosofo, lo strano mestiere come lo definiva. Nel complesso però si fece finta di niente. Le comunità scientifiche sono molto refrattarie al cambiamento».
Ma alla fine se ne è dovuto prendere atto. Come lei bambino davanti allo scenario di una Cassino distrutta, così i matematici e i logici dovettero accorgersi che la “verità” non era più la stessa.
«Il richiamo alla verità mi fa sorridere. È un fantasma. La sua ricerca esiste nella teologia, forse nella filosofia, magari in qualche frase che due innamorati si scambiano. La scienza non cerca la verità».
E cosa cerca?
«Ho sostituito il concetto di verità con quello di plausibilità. C’è già in Aristotele che si chiede quando una proposizione è plausibile. Se gli argomenti a favore di una certa tesi sono più convincenti non significa che la legge scientifica sia vera. Altrimenti non capiremmo l’evoluzione della scienza. Se la scienza si occupasse di verità si dovrebbe concludere che la sua storia è la somma di una serie di falsità».
Popper parlava di falsificabilità di una teoria scientifica.
«È vero. Ma a parte il fatto che già Peirce parlò del fallibilismo della scienza, c’è da aggiungere che Popper ha pensato la scienza come l’approssimazione continua a una verità ultima. In fondo non era molto distante dall’idea di Dio. Penso invece che quando si scoprono nuovi fatti si abbandonano le vecchie teorie. Non esiste approssimazione alla verità ultima».
La plausibilità finisce con l’essere un concetto relativo.
«Non c’è niente di disdicevole. Non esistono realtà ultime. Ciò che costruiamo umanamente serve a conoscere parti del mondo e a sopravvivere in esso. Limito molto il valore della scienza. Ho passato gli ultimi anni della mia vita a far vedere le incongruenze della logica».
Cos’è la bellezza in matematica o nella scienza?
«Sono d’accordo con Werner Heisenberg quando individuava l’origine della bellezza scientifica nella comprensione. Una dimostrazione è bella quando capiamo cosa c’è dietro e perché è stata costruita così in tutti i suoi passaggi».
Che cosa è il senso comune?
«Un modo di dire. L’accumulazione delle conoscenze precedenti contribuisce alla sua formazione. O magari è l’insieme di pregiudizi che provengono dal passato».
Lei dà l’idea di essere più un distruttore che un costruttore di teorie.
«Spesso sono insoddisfatto di ciò che vedo. Cartesio disse che se voleva costruire qualcosa doveva distruggere tutte le sue certezze. È un atteggiamento mentale che mi corrisponde».
Distruggere è un po’ uccidere e un po’ morire. Che rapporto ha con la morte?
«Il medesimo che aveva Epicuro: quando c’è lei non ci siamo. Non si può, come pretende Heidegger, “essere per la morte”. Tutti moriamo, non è un problema. O almeno lo diventa solo per la religione, per certa filosofia e magari per la grande letteratura».
Le piacciono i romanzi?
«A 16 anni lessi Il castello di Kafka. Mi affascinava il protagonista che cercava, senza riuscirci, di penetrare in un mondo chiuso. Mi sembrava che dicesse qualcosa su di me. In seguito ho letto tantissimo Proust. Una scrittrice che trovavo affascinante, anche se non mi diceva nulla sul piano personale, era Jane Austen. Mi innamorai della sua scrittura».
Curioso per un logico.
«Non mi pensi come un logico. Non mi sono mai identificato fino in fondo con l’oggetto studiato. Niente è unico. E forse tutto lo è. E ho fatto nella vita tutto quello che ho voluto fare. Una bella fortuna».
Antonio Gnoli, la Repubblica 27/7/2014