Angelo Aquaro, la Repubblica 27/7/2014, 27 luglio 2014
LA FINE DELLE HIT PARADE
L’uomo che inventò l’hit parade era così ossessionato dalle classifiche che nel mezzo del cammin della sua vita finì per incartarsi lui stesso tra primo, secondo e terzo posto: delle donne nel suo cuore. Oh sì, è davvero una storia prima felice, poi dolentissima e funesta quella di Harry Thurston Peck, il dottissimo direttore di Bookman scandalosamente accusato di poligamia. Fu lui l’uomo che per primo concepì al mondo, anno 1895, una classifica dei bestseller, i libri più venduti d’America. Prima ancora che Billboard introducesse la sua ormai mitica Hot 100 dei dischi. Prima ancora che Frank Sinatra swingasse sulle onde medie dell’Nbc la canzoni di Your Hit Parade. Prima ancora che Arthur C. Nielsen inventasse l’Index che avrebbe classificato ogni minimo show in tv. E chissà cosa direbbe oggi, Mr. Peck, ascoltando il canto del cigno della sua invenzione. L’hit parade è morta: viva l’hit parade?
Le campane a morto fatte rintoccare su Time da James Poniewozik seppelliscono più di cent’anni di illusioni: «Si può ancora definire che cos’è davvero un hit?». La domanda è maliziosamente retorica: perché la risposta è no. Nell’era di Netflix, nell’era di Spotify, nell’era dell’on demand, dell’accesso continuativo e permanente, abbiamo ormai perso il minimo comun denominatore del successo. Nessun indice è più capace di indicarci la via dell’hit parade: per un pollice alzato su una piattaforma ci sarà sicuramente un altro pollice — e sarà verso — su un’altra. Un tempo, appunto, «misurare un successo era facile. Nielsen contava ogni spettatore e i network scambiavano tutti quegli sguardi con i quattrini versati dagli investitori». Ma adesso? Prendete la tv commerciale che ha sfornato i serial più famosi degli ultimi vent’anni, la Hbo, quella di Sex and The City, I Soprano e ora Trono di Spade.
Dice Poniewozik: «Hbo ha appena annunciato che Trono di Spade ha un’audience superiore a quella dei Soprano: ma davvero il paragone è possibile? Tony Soprano, che debuttò agli inizi degli anni ‘90, quando un telefonino pieghevole era il massimo della tecnologia, aveva forse il vantaggio di poter essere guardato su ogni superficie piatta più piccola di un trancio di pizza?».
Non è solo questione di canali e piattaforme: emittenti e riceventi, come diceva il vecchio Roman Jackobson. Qui ne va della ridefinizione del prodotto stesso: dell’aspirante hit. Il fenomeno era del resto già noto agli studiosi di estetica. Da Platone a Walter Benjamin il bello è passato dall’ideale inarrivabile alla riproducibilità tecnologica: dall’Iperuranio all’iPhone. Insomma non c’era soltanto da ridere nella vecchia battuta di Nino Frassica a Quelli della Notte : «Non è bello ciò che bello: ma che bello che bello che bello…». Non si sentiva l’eco — il Signore dei critici ci perdoni — di Gertrude Stein? Lo spiega bene Jean Clair riassumendo la filofia dell’arte Usa contemporanea — che poi sarebbe la culla della nostra pop culture fin qui vissuta di hit parade. «Al diavolo Ronsard e la sua nostalgia, al diavolo Proust e il suo cielo di Combray così singolare a quel giorno e a quell’ora, al diavolo Platone e il suo Bello ideale… “A rose is a rose is a rose”, un blu è un blu è un blu è un blu, un cubo è un cubo è un cubo...». E un successo è un successo è un successo: ormai così ontologicamente compiuto in sé da proliferare sui mezzi più diversi indipendentemente dal contesto che lo ha generato — un canale tv, una polemica culturale, l’industria libraria, Hollywood o Broadway. L’idea di successo per te, che hai Sky e ti godi Gomorra , non è la stessa idea di successo per me, che magari non pago neppure il canone Rai e mi attacco a Don Matteo.
Di più. Non ci aveva allertati Chris Anderson, giusto dieci anni fa, agli albori dell’era di iTunes, sul valore della “Coda Lunga”? Il successo, spiegava il fondatore di Wired , la bibbia della tecnologia, è sempre più “di nicchia”. La canzone singola che di fan in fan, di cult in cult, di dollaro speso in dollaro speso, accumula centinaia di migliaia di quattrini nel lungo periodo, ormai conta più del vecchio ellepì: anche se non finisce in classifica. E scriveva, Anderson, prima ancora che Spotify imponesse la legge dell’abbonamento che sta scardinando perfino gli iTunes di tutto il mondo: non paghi più né il singolo né l’intero ellepì, paghi il tuo bell’abbonamento mensile e ascolti tutta la musica che vuoi — dai Madrigali a X Factor. Risultato: se una volta bastava l’urlo di Lelio Luttazzi a ricordarci che cos’è un’“Hiiiiiit Paraaaade”, oggi ogni settimana ci sforna la sua brava classifica dei brani più scaricati da iTunes e di quelli ascoltati su Spotify in streaming, sulla nuvoletta virtuale che fantozzianamente ormai incombe sulla nostra vita quotidiana.
Insomma non è che i conti non tornino più: è che tornano su pallottolieri diversi. Come dimostra d’altronde il boom dei “listicles”, gli “articoli-lista” su cui oggi dibatte perfino il Nieman Journalism Lab, e che hanno fatto il successo — appunto — di siti come BuzzFeed: e sono praticamente tante piccole classifiche su ogni cosa, dal disco più stonato al libro più sporcaccione. E del resto che cosa se ne farebbe, oggi, l’industria libraria, delle ascisse e delle ordinate messe nero su bianco appena sette anni fa dal professor Alan T. Sorensen, Università del Wisconsin, in quell’informatissimo studio intitolato “Bestseller Lists and Product Variety” sul prestigioso Journal of Industrial Economics ? Qual è la lista dei bestseller che conta di più? Quella ufficiale o quelle che si rincorrono nei social e si spostano a ogni twittìo di opinion maker del web: da Emily Gould al nostro Roberto Saviano? Ci ha pensato Resolt-Source, agenzia di marketing di San Diego, a smascherare le bugie delle vecchie bestseller lists: dimostrando che ciascuno può trasformare il proprio romanzaccio in hit. Basta piazzare gli acquisti giusti nelle librerie giuste, quelle cioè considerate “che contano” dagli analisti del marketing.
E già: chissà cosa direbbe il povero Harry Thurston Peck, l’uomo che inventò l’hit parade. Per la cronaca, e per tornare alla sua storia, mentre divorziava dalla sua prima donna per sposare la seconda, l’esimio intellettuale fu portato a giudizio da una terza, che reclamava anche lei la promessa — drammatico esempio vivente di proliferazione di posti in classifica. Lo scandalo che ne seguì gli chiuse tutte le porte: tranne quella di un albergaccio. «Idolo letterario, decaduto, muore con un colpo di pistola in una camera da 4 dollari a Stamford, Connecticut»: così titolò il New York Times giusto cent’anni fa, 23 marzo 1914. La fine dell’hit parade cominciò davvero col suo inizio.
Angelo Aquaro, la Repubblica 27/7/2014