Jaime D’Alessandro, la Repubblica 27/7/2014, 27 luglio 2014
L’IMMAGINAZIONE È FINITA, NON CI RESTA CHE LA SCIENZA
[Intervista a Yoshiyuki Tomino] –
TOKYO
Il gigante è un uomo minuto di settantatre anni che indossa una camicia azzardata, per metà bianca e per metà nera. Ci accoglie in una sala riunioni asettica, con un lungo tavolo di legno scuro lucido, nel palazzetto anonimo degli studi della Sunrise a Tokyo. Gli scaffali di metallo, protetti da vetrine, avrebbero potuto ospitare raccolte di leggi o reperti medici. Invece ci sono migliaia di fumetti perfettamente ordinati. Meglio: di manga. Yoshiyuki Tomino ha uno sguardo ironico e un modo di fare sicuro che in Giappone hanno solo i colossi, i personaggi intoccabili che hanno fatto la storia. E lui la storia l’ha fatta eccome. È il “padre” di Gundam, la serie animata di robot più importante e amata. Uno dei capostipiti e punti di riferimento, insieme a Goldrake e Mazinga, per tutti gli altri, fin dalla prima messa in onda il 7 aprile del 1979. Una storia lunga trentacinque anni fra trentasei serie tv, film, fumetti, libri, videogame e una schiera infinta di modellini e action figure che hanno fatto incassare a Tomino & Co. mezzo miliardo di euro. E poi due statue: la prima di bronzo, alta tre metri, davanti alla stazione della metropolitana di Suginami, il quartiere dove sorge la sede della Sunrise. La seconda a grandezza naturale, diciotto metri, che vigila sull’isola artificiale di Odaiba nella baia di Tokyo.
«Lei di cosa si occupa?» chiede Yoshiyuki Tomino spargendo sul tavolo alcuni fogli pieni di grafici, diagrammi, proiezioni, in un’intervista al contrario. «Di tecnologia e cultura digitale, per lo più», rispondo. E cosa ci fa qui in Giappone allora? «Parte di quella cultura è stata creata qui». Lui replica: «In passato, forse». Fa una pausa levandosi gli occhiali anni Settanta. «Ultimamente sto cercando di promuovere alcuni progetti di ricerca avanzata giapponesi riguardanti ad esempio l’uso del laser e gli acceleratori di particelle».
Ma lei non si occupa di animazione?
«In realtà io ho immaginato il futuro per più di trent’anni. L’ho scritto, disegnato, trasformato in intrattenimento. Finché non mi sono accorto che il mio Paese il futuro lo stava perdendo. Anzi, l’ha perso. Oggi nella ricerca siamo indietro rispetto alla Corea, alla Cina e siamo indietro anche rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. Così ho deciso di impegnarmi per aiutare a costruire un avvenire possibile».
Dalla fantascienza alla realtà.
«La fantascienza parte sempre dalla realtà (dice sorridendo). Il Giappone ha investito miliardi nella robotica, partendo da un’idea di fondo non troppo distante da quella che fece nascere personaggi come Astro Boy, il bambino androide di Osamu Tezuka e più tardi lo stesso Gundam. Da giovane, all’inizio della mia carriera, ho lavorato con Tezuka proprio ad Astro Boy. Ma a esser sincero credo che la robotica, almeno lo sviluppo di umanoidi sintetici, sia una perdita di tempo».
Detto dal “padre” di Gundam fa effetto.
«Costruire un umanoide è cercare di capire meglio il senso della nostra esistenza e il significato, o forse la bellezza, del nostro organismo. Ma non è detto che si trasformi in una supremazia in campo tecnologico».
Quando l’avete persa la supremazia?
«La data esatta non la conosco. So però che è stato un americano, Steve Jobs, il primo a realizzare una forma di relazione diversa e facile fra uomo e macchina attraverso uno schermo tattile».
Fin qui, gli smartphone.
«No: fin qui tutto. Abbiamo perso terreno in tutti i campi, anche in quello dell’immaginario mentre perdevamo terreno reale e fette di mercato. Le due cose sono legate. Oggi l’animazione giapponese quasi non esiste più. È data in “outsourcing” a case di produzione sparse per l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Nord. A tal punto che a volte mi chiedo se non abbiamo dato in “outsourcing” noi stessi. Fra qualche anno non sapremo fare più nulla. Poco importa che si tratti di disegnare un personaggio, progettare un dispositivo digitale, realizzare un videogame».
Sta dipingendo un paese senza futuro.
«Forse il futuro è nelle realtà produttive minute, nei progetti fatti da piccoli gruppi. È nell’intraprendere una strada diversa rispetto a quella che abbiamo percorso».
Come fece lei trentacinque anni fa. La nuova strada potrebbe indicarla lei.
«Quando fu mandata in onda la prima serie di Mobile Suit Gundam non avevo idea che avrebbe avuto tanto successo. Non avevo in mano una formula precisa e francamente oggi non saprei quale consiglio dare ai giovani animatori. So solo quali sono i problemi del nostro mondo, ma non conosco le soluzioni. Credo però ancora nella ricerca scientifica. Non è molto forse, ma è quel che mi resta».
Jaime D’Alessandro, la Repubblica 27/7/2014