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 2014  luglio 27 Domenica calendario

LE CARRÉ. IO E SEYMOUR HOFFMAN

Credo di aver trascorso cinque ore al massimo in intima compagnia di Philip Seymour Hoffman, sei col beneficio del dubbio. Altrimenti, non restava che starsene lì con altre persone, intorno al set di A Most Wanted Man, a guardarlo sul monitor, e in seguito gli si diceva che era bravo, o si decideva che era meglio tenersi per sé le proprie opinioni. Non avevo fatto quasi mai visite al set, forse un paio, oltre a una sciocca particina che mi obbligò a farmi crescere una barba rivoltante, mi portò via un giorno intero e alla fine si concluse con la sfocata immagine di qualcuno che fui grato di non riconoscere. Quasi certamente nel mondo del cinema non c’è nessuno di più superfluo di colui che ha scritto il testo originale da cui è stata tratta la sceneggiatura di un film e che gironzola sul set, e l’ho appreso a mie spese. Alec Guinness in effetti mi ha fatto il favore di mostrarmi il set dell’adattamento televisivo per la Bbc di La talpa . Tutto quello che avevo in mente di fare era sprigionare la mia ammirazione, ma Alec disse subito che il mio sguardo lucentissimo era troppo intenso.
A ben pensarci, in quell’inverno del 2012 di riprese di A Most Wanted Man , un pomeriggio Philip ha fatto lo stesso favore a una nostra amica. Lei si trovava in piedi in mezzo a un gruppetto di persone, a una trentina di metri circa da lui. Se ne stava lì a guardare, prendendo freddo come chiunque altro. Qualcosa di lei però lo infastidiva e l’ha fatta allontanare.
È stato un po’ surreale, un po’ paranormale, ma Philip ha colto nel segno, perché in effetti anche quella signora era una scrittrice di romanzi, in grado di irradiare intensità come i migliori tra noi. Philip non lo sapeva. L’ha intuito soltanto.
Col senno di poi, nessun fenomeno di questo tipo sorprendeva di Philip, perché ti accorgevi delle sue brillanti doti intuitive nell’istante stesso in cui ne facevi la conoscenza. E così pure era per la sua intelligenza. Molti attori simulano intelligenza, ma Philip era intelligente sul serio: era un eclettico brillante, raffinato, e aveva un intelletto che ti colpiva come la luce di un paio di fari e ti avviluppava appena ti afferrava la mano, ti circondava il collo con il suo braccione e si accostava con la sua guancia alla tua; o, se era dell’umore giusto, ti avvinghiava stringendoti a sé, come un grosso scolaro tracagnotto, e poi restava lì in piedi a illuminarti, calcolando l’effetto prodotto.
Philip faceva vivaci bilanci di ogni cosa, di continuo. Era un’occupazione dolente ed estenuante, e alla fine deve essere stata la sua rovina. Il mondo era troppo sfolgorante perché lui lo potesse tollerare. Doveva strizzare gli occhi o esserne abbagliato a morte. Come Chatterton, andò sette volte sulla Luna rispetto all’unica vostra, e ogni volta che decollava non eri mai sicuro che sarebbe tornato indietro. Credo che qualcuno disse la stessa cosa del poeta tedesco Hölderlin: ogniqualvolta usciva da una stanza, temevi di non rivederlo più. Se quanto sto dicendo può sembrare un’opinione scontata, a posteriori, dopo quello che è successo, sappiate che non è così. Philip si distruggeva davanti ai tuoi stessi occhi. Nessuno riusciva a vivere ai suoi ritmi e a rimanere in carreggiata, e nei suoi eccessi di straordinaria confidenza aveva bisogno che tu lo sapessi.
Nessun attore — non Richard Burton, non Burt Lancaster, e neppure Alec Guinness — mi ha mai colpito quanto Philip quando ci siamo conosciuti: mi ha accolto come se da tutta la sua vita non avesse fatto altro che aspettare di conoscermi, e suppongo che accogliesse così chiunque. Io, invece, effettivamente aspettavo da molto tempo di conoscere Philip. Ritenevo che il suo Capote fosse la migliore performance in assoluto che avessi visto sullo schermo. Non ho osato dirglielo, però, perché con gli attori c’è sempre il rischio che quando dici loro quanto sono stati bravi nove anni prima ti possano chiedere che cosa c’è che non va nel loro modo di recitare da nove anni a questa parte.
Gli ho detto però che era l’unico attore americano che conoscevo in grado di interpretare il mio personaggio di George Smiley, ruolo in un primo tempo esaltato da Alec Guinness nell’adattamento televisivo per la Bbc de La talpa, e in tempi più recenti da Gary Oldman in un altro adattamento per il grande schermo. Ma all’epoca, da fedele britannico, rivendicavo Gary Oldman come nostro.
Forse ricordavo anche che, al pari di Guinness, sullo schermo Philip non riusciva a interpretare granché bene un amante, ma per fortuna nel nostro film non c’era di che preoccuparsi. Se Philip doveva prendere nelle proprie braccia una donna, non arrossivi e non distoglievi lo sguardo come facevi con Guinness, ma non potevi fare a meno di avere la sensazione che, in qualche modo, lui lo stesse facendo per te, più che per se stesso.
I nostri registi hanno discusso a lungo per decidere se dovessero riprendere Philip a letto con una donna, ed è interessante sapere che quando alla fine hanno proposto davvero una scena del genere, sono stati entrambi i partner a defilarsi. Soltanto quando accanto a lui è comparsa la splendida attrice Nina Hoss i registi si sono resi conto di assistere al piccolo miracolo di un romantico fallimento. Nella sua parte, rimpolpata in fretta e furia, Nina Hoss è l’adorante collega di lavoro di Philip, la sua sostenitrice, la sua solida spalla. E lui le spezza il cuore.
A Philip quella parte andava benissimo: la sua interpretazione di Günther Bachmann, un agente dell’intelligence tedesca di mezza età in condizioni assai precarie, non prevedeva di includere l’amore o niente del genere. Philip aveva preso quella decisione fin dall’inizio e per poterlo rinfacciare all’occasione si portava sempre appresso una copia in formato tascabile del mio romanzo, molto sgualcita dall’uso — e quale scrittore potrebbe chiedere di meglio? — , per sventolarla sotto il naso di chiunque avesse l’idea di aggiungere un po’ di pepe alla storia. Il film A Most Wanted Man, nel quale recitano anche Rachel McAdams e Willem Dafoe, sta per uscire nei cinema, anche da voi, quindi iniziate a mettere da parte i soldi per il biglietto. È stato girato quasi interamente ad Amburgo e Berlino, e del cast, in ruoli relativamente di secondo piano, fanno parte anche alcuni degli attori tedeschi più famosi: non solo la sublime Nina Hoss, (interprete di We Are the Night , Barbara , e così via), ma anche Daniel Brühl (che ha recitato in Rush, Good Bye Lenin! e in altre pellicole).
Nel romanzo, il mio personaggio di Bachmann è un agente segreto prossimo alla rovina. Beh, Philip sa interpretarlo alla perfezione. È stato riportato in tutta fretta a casa da Beirut dopo aver perso la sua preziosa rete di informatori per l’incompetenza, o qualcosa di peggio ancora, della Cia. È stato spedito ad Amburgo, a raccogliere informazioni nella città che ospitò i cospiratori dell’11 settembre. La divisione dell’intelligence locale, e molti dei suoi abitanti, vivono portandosi ancora dietro quell’imbarazzo.
La missione che Bachmann si è dato è ripianare le cose: non con squadre di sequestratori, torture con l’acqua e omicidi extragiudiziali, ma con la sapiente infiltrazione di spie, amalgamandosi, utilizzando il peso stesso del nemico per abbatterlo, e compiere quindi lo smantellamento del jihadismo dal di dentro.
Mi sembra che nel corso di una cena di gala con i registi e gli attori principali del cast, né Philip né io abbiamo parlato granché della parte di Bachmann; abbiamo chiacchierato in termini più generali di cose come la diligenza e l’addestramento degli agenti segreti e il ruolo di pastore che ricade sui funzionari loro superiori. Lascia stare i ricatti, gli ho detto. Lascia stare i macho. Dimentica torture come la privazione del sonno, richiudere le persone in casse, simulare l’esecuzione e altre esagerazioni di questo tipo. Gli agenti migliori — chiamali informatori, spie, infiltrati o come ti pare — devono avere pazienza, intendimento e sincera scrupolosità, predicavo. Mi piace pensare che egli abbia preso a cuore il mio sermone, ma è più probabile che si sia chiesto se non valeva la pena sfruttare un po’ quell’espressione smancerosa che mi viene naturale quando cerco di far colpo su qualcuno.
È difficile adesso scrivere in modo distaccato della performance di Philip nel ruolo di un uomo disperato di mezza età che va incontro alla rovina, o di come egli ha dato forma alla traiettoria autodistruttiva del suo personaggio. Naturalmente c’era qualcuno a dirigerlo, e il regista Anton Corbijn, eclettico e colto come Philip, è poliedrico e fa molte cose, tutte splendidamente: è un fotografo di fama mondiale, un caposaldo della scena musicale contemporanea, ed è egli stesso il soggetto di un documentario. Il suo primo film, Control, in bianco e nero, è iconico. Al momento sta girando un film su James Dean. Malgrado tutto ciò, comunque, i suoi talenti e la sua creatività, quando li ho visti all’opera, mi hanno colpito; erano interiorizzati e contavano per lui stesso. Sospetto che egli sarebbe l’ultima persona al mondo a definirsi un drammaturgo empirico, o un eloquente comunicatore della vita interiore di un personaggio. Philip ha dovuto fare dentro di sé quello stesso dialogo, e deve essere stato un dialogo alquanto ossessivo, pieno di domande come: a che punto esatto devo perdere ogni sensazione di moderazione? Oppure: perché insisto nell’affrontare tutto ciò pur sapendo in fondo in fondo che può soltanto finire in tragedia? Ma la tragedia attirava Bachmann come fa la luce di una lampada con un saccheggiatore di relitti, e ha attirato anche Philip.
C’è stato un problema con gli accenti. C’erano attori tedeschi eccellenti che parlavano inglese con accento teutonico. Il comune buonsenso avrebbe imposto, non necessariamente con saggezza, che Philip dovesse fare altrettanto. Quando l’ho sentito parlare per pochi minuti, ho pensato: “Accidenti!”. Nessun tedesco che conosco parla inglese così. Con la bocca faceva qualcosa di particolare, una specie di broncio. Pareva quasi baciare le sue battute, invece di pronunciarle. Poi, poco alla volta, ha fatto ciò che soltanto gli attori migliori riescono a fare: ha reso la sua voce l’unica voce autentica. L’unica voce particolare, quella dalla quale dipendevi in mezzo a tutte le altre. E ogni volta che usciva di scena, da quel grand’uomo che era, attendevi impaziente che vi tornasse. Lo aspettavi già con un crescente senso di malessere.
Dovremo attendere a lungo prima che arrivi un altro Philip.
Traduzione di Anna Bissanti
© David Cornwell, 2-014 Published by Arrangement with Agenzia Santachiara
John Le Carré, la Repubblica 27/7/2014