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 2014  luglio 27 Domenica calendario

“EUROPA A RISCHIO ANTISEMITISMO ORA ISRAELE CERCHI UN COMPROMESSO”

[Intervista al filosofo francese Alain Finkielkraut] –
Rispetto al conflitto israelopalestinese, alcuni intellettuali la criticano per non aver denunciato i bombardamenti israeliani contro i civili palestinesi, mentre a suo tempo lei era insorto contro l’assedio di Vukovar e di Sarajevo da parte dei serbi. Lei cosa risponde?
«Prima di tutto vorrei fare una precisazione. Io amo Israele e mi spaventa l’odio intercontinentale che si scatena su questo piccolo paese la cui esistenza è ancora messa in dubbio. Ma non ho mai sostenuto incondizionatamente la politica israeliana. Il 9 luglio, ero a Tel Aviv su invito del quotidiano Haaretz, che aveva organizzato una grande conferenza sulla pace. Rappresentavo Jcall (movimento di ebrei europei per la pace sul principio “due popoli, due Stati”, ndr) e ho detto che, come intellettuale ebreo, devo costantemente battermi su due fronti: contro un antisemitismo che denuncia il “mostro sionista” nel linguaggio dell’antirazzismo, e a favore del compromesso, vale a dire la separazione in due stati, uno israeliano e l’altro palestinesi. Ho aggiunto che insistendo sullo status quo, il governo israeliano mette a rischio il progetto sionista stesso. Già nel 1991, il grande orientalista Bernard Lewis era preoccupato nel veder diventare Israele, sul modello del Libano, «un’ennesima associazione difficile tra gruppi etnici e religiosi in conflitto». E aggiungeva: “Gli ebrei verrebbero a trovarsi nella stessa posizione dominante che avevano una volta i maroniti con la probabile prospettiva, alla fine, di un destino alla libanese”. Per evitare che questa previsione si avveri, sarebbe urgente fare ciò che Ariel Sharon definiva “dolorose concessioni territoriali”. Se questo ripugna ai suoi successori è perché diffidano del loro partner, ma è soprattutto perché hanno paura dei propri estremisti. Essi temono la guerra civile tra israeliani che accompagnerebbe lo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania».
Non è forse lecito interrogarsi sull’elevato numero di vittime tra i civili palestinesi?
«A Tel Aviv ho visto un breve film di propaganda in cui Hamas chiedeva ai “coloni” di Beer-Sheva di lasciare la loro città perché l’avrebbero distrutta. Questa organizzazione non si pone il problema dei due Stati, non si pone nemmeno il problema di uno stato palestinese. Quello che vuole è che tutta la Palestina torni ad essere di proprietà dell’islam. Se la civiltà dell’immagine non stesse distruggendo la comprensione della guerra, nessuno sosterrebbe che i bombardamenti israeliani sono rivolti contro i civili. No, gli israeliani avvertono gli abitanti di Gaza dei bombardamenti che stanno per fare. E quando mi dicono che queste persone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotterranei di Gaza avrebbero dovuto essere fatti per loro. Oggi ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa d’Israele. Ma Hamas e la Jihad islamica fanno altri calcoli e hanno altre priorità architettoniche. Per vincere la guerra da un punto di vista mediatico, vogliono far apparire Israele come uno Stato criminale. Ogni vittima civile, per loro è una benedizione. Io stesso andrei a manifestare a Parigi per il cessate il fuoco a Gaza se in questi cortei si pretendesse anche la cessazione dei lanci di razzi su tutte le città israeliane. Chiederei il ritiro del blocco se fosse accompagnato dalla smilitarizzazione di Gaza».
Alcuni arrivano a paragonare Gaza — lunga poco più di 40 km e larga meno di dieci — al ghetto di Varsavia. Il confronto le sembra scandaloso?
«Ricordiamo in effetti che la Wehrmacht si prendeva cura, come oggi fanno le forze armate israeliane, di proteggere le strade che portavano al ghetto, per consentire il trasporto di viveri, medicine, aiuti umanitari... Verrà il giorno — è già venuto in Turchia — in cui non ci si riferirà all’apocalisse nazista che per incriminare Israele, il sionismo e gli ebrei. Io non credo in Dio, ma questo rovesciamento del dovere della memoria mi sembra una prova molto convincente dell’esistenza del diavolo».
Abbiamo ascoltato per le strade di Parigi il grido «Morte agli ebrei». Il fenomeno è paragonabile all’antisemitismo degli anni Trenta o è più il pretesto di un comunitarismo “anti-francese”?
«L’antisemitismo degli anni Trenta e la grande solidarietà antirazzista degli anni Ottanta si sono frantumati. Oggi abbiamo a che fare con l’antisemitismo di quelli che si definiscono i dannati della terra, da cui l’imbarazzo dei progressisti. Non ne riconoscono l’esistenza che di malavoglia e quando non possono fare altrimenti. Così ora parlano di un “nuovo” antisemitismo per un fenomeno che esiste da quasi 30 anni. Questo odio non è solo contro gli ebrei. Lo abbiamo visto nelle manifestazioni dopo le vittorie dell’Algeria nella Coppa del Mondo, con la sostituzione delle bandiere francesi con bandiere algerine sugli edifici pubblici. Bisognava esprimere la propria fierezza nazionale e il disprezzo per la nazione in cui si vive».
Tacciando di antisemitismo ogni critica contro Israele, alcuni membri della comunità ebraica non rischiano di alimentare il vittimismo?
«Io critico la politica israeliana. Mi dichiaro instancabilmente dai primi anni Ottanta per la soluzione dei due Stati. Condanno il proseguimento della costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Dico che l’intransigenza nei confronti di Hamas dovrebbe essere accompagnata da un efficace sostegno all’Autorità palestinese. Ciò non mi impedisce di essere uno dei bersagli preferiti del “nuovo” antisemitismo».
Dietro il rifiuto di Israele espresso da una parte della sinistra francese, cosa c’è? Un rifiuto dell’identità, dello Stato- nazione e delle frontiere?
«In un articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista Le Débat, lo storico inglese Tony Judt ha scritto che “in un mondo dove le nazioni e gli uomini si mescolano sempre di più e dove i matrimoni misti si moltiplicano, dove le barriere culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi crollate, dove siamo sempre più ad avere molteplici identità elettive e in cui ci sentiremmo terribilmente in imbarazzo se dovessimo rispondere a una sola di esse; in questo mondo, Israele è veramente un anacronismo”. Così come san Paolo si indignava del rifiuto ebraico della religione universale, i nostri multiculturalisti vedono Israele come un ostacolo etnico-nazionale al riconoscimento definitivo dell’Uomo da parte dell’Uomo. Ma il mondo umano non è un supermercato o una brochure turistica. Qual è il multiculturalismo dietro la United Colors of Benetton e la gioiosa disponibilità di tutte le cucine, di tutte le musiche, di tutte le destinazioni? È lo scontro delle culture, e in questo scontro gli ebrei, ovunque si trovino, qualsiasi cosa dicano e facciano, sono in prima linea».
© Le Figaro (traduzione Luis E. Moriones)
Eugénie Bastié, Alexandre Devecchio e Guillaume Perrault, la Repubblica 27/7/2014