Emanuele Trevi, Corriere della Sera La Lettura 27/7/2014, 27 luglio 2014
LA COMMEDIA UMANA DI BALZAC È UN TRIANGOLO D’AMORE
Sarebbe davvero interessante il libro di un erudito che ci raccontasse la lunga e avventurosa storia della maldicenza intesa come forma d’arte. I francesi, come si sa, in questa storia farebbero la parte dei leoni, non foss’altro perché Saint-Simon si potrebbe definire l’Omero della diffamazione, del pettegolezzo rivelatore, del ritratto impietoso.
Un degnissimo erede del velenoso duca si rivela Octave Mirbeau in quel testo rimasto a lungo semi-clandestino e conosciuto con il titolo La morte di Balzac. Si tratta, in realtà, di tre capitoli di un romanzo più ampio, un esperimento modernista intitolato La 628-E8 (è il numero di targa della macchina dell’autore), pubblicato nel 1907. Ma la figlia di primo letto di Madame Hanska, la moglie di Balzac, minacciò di ricorrere alle vie legali se le scabrose vicende raccontate dalla madre avessero visto la luce. L’editore fu costretto a squinternare i volumi del romanzo già pronti per le librerie, eliminando il sensazionale gossip raccontato da Mirbeau, che rimase nell’ombra, a parte pochissimi iniziati, fino al 1989.
Per cogliere le intenzioni e il metodo di Mirbeau, basta percorrere poche righe iniziali, fino a imbattersi in questa notizia inedita su Balzac lasciata cadere con perfida naturalezza: «Conosco su di lui un particolare intimo e un po’ ridicolo: la natura lo avrebbe armato parsimoniosamente all’amore». Raramente la critica letteraria, immagino, ha trattato le dimensioni degli autori presi in esame. Ma da chi lo conosce, Mirbeau, questo così imbarazzante particolare della vita del genio? È proprio questa domanda che l’autore vuole che i suoi lettori si pongano. Perché Mirbeau vuole condurci per mano in un territorio ambiguo dove la menzogna e la verità possono convivere anziché escludersi a vicenda. È il regno della chiacchiera, della confidenza a notte tarda, della testimonianza fuori tempo massimo che scompiglia le carte degli aneddoti più risaputi. Il pettegolezzo e la confessione piccante (che non è altro che un pettegolezzo su se stessi) affascinano Mirbeau per la loro capacità di resistenza. Forniscono l’illusione che la nobile ombra del passato sia ancora tra noi, così viva e presente che possiamo dire di lui che ce l’aveva piccolo. È una specie di estasi, di ricerca del tempo perduto che al posto della madeleine utilizza l’infamia. Riflettere sulle date può essere illuminante.
Quando Balzac morì, il 18 agosto 1850, Mirbeau aveva due anni. Mezzo secolo dopo, l’autore della Commedia umana è uno dei simboli più universali della supremazia spirituale francese: il titano, il demiurgo, colui che ha visto tutto e di tutto reso conto. Ma erano pur sempre vive delle persone che, per vari motivi, lo avevano osservato da vicino. Ed è grazie a questa circostanza che Mirbeau, con un’abilità degna del Truman Capote di Preghiere esaudite, è in grado di fornire ai suoi lettori, adeguatamente preparati, il pezzo forte del suo libello. Finissimo intenditore d’arte e amico di artisti, Mirbeau conosce Jean Gigoux, collezionista e mediocre pittore di soggetti storici, morto nel 1894 a ottantotto anni. Poco prima di arrivare alla fine di una lunga vita, nel corso di una conversazione notturna, quella veneranda reliquia di un’epoca ormai remota decide di vuotare il sacco. Sa tutto sul giorno della morte di Balzac, e non vuole andarsene senza aver confidato quei ricordi a qualcuno. Non è affatto uno sciocco, e sa benissimo che Mirbeau non resisterà alla tentazione di scriverne: ma lui, a quel punto, se ne sarà già andato. Il racconto di Gigoux ci riporta indietro fino a quel terribile giorno dell’estate del 1850, l’ultimo di Balzac, arrivato allo stremo delle forze a causa della malattia circolatoria («ingrossamento del cuore» si chiamava a quei tempi) che gli procura delle tremende sofferenze.
Da poche settimane, lo scrittore si è sistemato nella casa di rue Fortunée preparata in vista del ritorno a Parigi con la sua nuova moglie, Madame Hanska, l’aristocratica russa dalla quale si aspettava amore e sicurezza finanziaria, senza ottenere né l’uno né l’altra. A parte qualche visita premurosa di Victor Hugo, il medico e qualche persona di servizio, la grande casa, mai finita di pagare, è deserta. Gigoux sa tutto per un semplicissimo motivo: ha seguito ora per ora l’agonia di Balzac nel letto della moglie. Amore e morte? Più che altro, Gigoux sembra avere acconsentito per dovere di amante agli inopportuni desideri di Madama Hanska. Lui vorrebbe solo andarsene, desidera fumare un sigaro, non ne può più di quella donna che ha invano cercato di convincere a visitare per l’ultima volta il marito. Almeno per le forme. La situazione meriterebbe il talento di un grande regista in cerca di effetti talmente grotteschi da apparire surreali: da una parte ci sono i due amanti nudi nel letto, che ascoltano le notizie gridate dietro la porta dall’infermiera scandalizzata; all’altro capo della casa il Genio è preda degli orribili sintomi terminali della malattia. Sembra il canovaccio di una delle tante commedie piccanti che si rappresentavano sui boulevard: e forse questo involucro è l’unico nel quale, per noi moderni, è ancora possibile riconoscere l’odore metafisico della tragedia.
Ho iniziato con le lodi della maldicenza, ma il testo di Mirbeau rappresenta anche un esempio ammirevole di passaggio dalla maldicenza alla dissacrazione. Ci sarà sempre qualcuno pronto a scandalizzarsi per un tale atteggiamento di lesa maestà. Ma quando è solo il monumento a parlare in nome del grand’uomo, quell’uomo non è forse morto per sempre? Siano dunque rese lodi agli amanti indiscreti come Gigoux, e agli scrittori come Mirbeau che li stanno a sentire esercitando, quando arriva l’occasione, la difficile virtù dell’infamia.