Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera La Lettura 27/7/2014, 27 luglio 2014
LA NONNA DI TUTTE LE GUERRE: 13 MILA ANNI FA
Nella profondità del tempo, nel deserto più deserto che si possa immaginare, due gruppi di esseri umani vagano alla ricerca di acqua, di vegetazione, di animali. La prima formazione proviene da Sud: gli uomini hanno lunghi arti, il torso più piccolo e un grande naso leggermente schiacciato. Gli altri scendono da Nord: mani e braccia corte, petto più sviluppato, le mascelle allargate. Sono in marcia da giorni, forse da settimane. Un cammino infinito per raggiungere il Nilo, il fiume misterioso e scorbutico, ma pur sempre l’unica fonte di sopravvivenza nel mondo di sabbia. Quelle strane creature, forti e muscolose, si incrociano, si avvistano a distanza. Il corso d’acqua è ancora lontano; la paura, invece, si avvicina a mano a mano che gli uni distinguono gli archi, le frecce, i bastoni degli altri. Non c’è mediazione, non c’è il modo e neanche il tempo per fuggire. Uomini contro uomini, lo scontro è violento e termina solo quando la morte decide chi debba prevalere e sopravvivere.
Deserto di Jebel Sahaba, 13 mila anni fa, 11 mila avanti Cristo: è questa la prima guerra dell’umanità, la «nonna» di tutte le battaglie si potrebbe dire, stando agli studi condotti da scienziati francesi e britannici. Questo racconto comincia due anni fa, quando gli antropologi dell’Università di Bordeaux riesaminano, con le ultime sofisticate tecnologie a disposizione, i resti di un cimitero rinvenuto nel 1964 dall’archeologo americano Fred Wendorf, nella zona tra il Sahara e la riva est del Nilo, nel territorio oggi appartenente al Sudan. Gli esperti scoprono su quelle ossa e su quei teschi ben conservati i segni, le scheggiature provocate da dardi appuntiti, lanciati, secondo logica e secondo i rilievi, da lunga distanza. Alcuni reperti sono stati ora trasferiti nella galleria permanente del British Museum di Londra, dedicata alle civiltà dell’antico Egitto.
Le implicazioni storiche, ma probabilmente anche filosofiche, delle nuove indagini sugli scheletri di Jebel Sahaba sono intriganti. Per il momento sembra accertato che gli scontri tra gruppi diversi fossero frequenti nell’arco dei mesi e degli anni. I resti catalogati appartengono alla stirpe levantina del Nord. Si presume che le vittime — uomini, donne e bambini — siano state seppellite dai loro, chiamiamoli così, compagni di viaggio. Su un punto, però, gli esperti sono divisi. Una corrente di studi, alimentata in particolare dall’università dell’Alaska, dall’università Tulane di New Orleans e dall’università John Moores di Liverpool, giunge alla conclusione che la guerra di Jebel Sahaba vada considerata come l’episodio rivelatore di un’epoca prolungata di scontri razziali, una fase di selezione evolutiva all’interno della stessa specie, la nostra, quella dell’Homo sapiens. Dall’altra parte, però, ci sono i ragionamenti dei curatori del British Museum, che non condividono questa chiave di lettura e si mostrano molto prudenti: il cimitero di Jebel Sahaba risale a un periodo della storia umana ancora troppo oscuro e segnato da conflitti di ogni tipo, non solo quelli tra razze diverse.
Le differenze di interpretazione, però, non mettono in discussione l’impatto culturale della prima battaglia sul pianeta a essere documentata con certezza. Gli scheletri di due guerrieri riposano ora, rannicchiati sul fianco, in una teca trasparente, sistemata nella sala 64 al terzo piano del British, nell’ala dedicata all’Antico Egitto, ma in una posizione defilata, lontano dalle celebri mummie del museo. A soli due passi è esposto il Gebelein man , l’uomo mummificato naturalmente dalla sabbia e ritrovato in una tomba di pietra nell’Alto Egitto, circa 5.500 anni fa. Due passi che coprono una distanza di circa 7.500 anni; pochi metri che obbligano gli studiosi a ritornare sullo spessore del tempo, a riflettere sul ritmo e sulle modalità dell’evoluzione umana.
Le analisi di laboratorio sulla dentatura e sulla struttura fisica rivelano che i guerrieri di Jebel Sahaba potevano sopravvivere oltre i 50 anni e che si procuravano il cibo con la caccia e con la pesca. Erano, quindi, in grado di costruire armi nell’11.000 avanti Cristo, mille anni prima che nell’emisfero nord terminasse l’era glaciale, duemila anni indietro rispetto alle primitive capanne del neolitico conosciute finora, seimila anni in anticipo sulla formazione delle rudimentali comunità agricole stanziate lungo le sponde del Nilo.
Pensare, prepararsi alla guerra significa riconoscere un’identità, un’appartenenza. Un «noi» distinto e contrapposto agli «altri»; vuole dire avere una nozione di società, per quanto precaria e volatile; un’idea degli interessi vitali da proteggere o sviluppare. Naturalmente è la coscienza, la consapevolezza che distingue questi concetti dagli analoghi istinti degli animali. Una comunità che ha imparato a seppellire i propri morti, indubbiamente possiede questa coscienza, coltiva questa consapevolezza.
Nel cimitero di Jebel Sahaba sono stati ritrovati 61 individui, alcuni seppelliti da soli, altri in gruppo. Tutti erano sistemati in tombe poco profonde e coperte da lastre di pietra. I corpi venivano adagiati sul lato sinistro, leggermente piegati. Questa procedura, sostengono gli esperti, faceva probabilmente parte di un rituale più complesso: la convinzione religiosa che i corpi dovessero essere pronti per un’altra vita. Più o meno diecimila anni prima delle Piramidi, il culmine del culto religioso nella civiltà egizia.
Tutto ciò raccontano queste ossa marroni, questi teschi imbruniti che ora vedono sfilare i turisti sudati e distratti, che allungano lo sguardo, si soffermano qualche minuto, di passaggio. Certamente non sono qui per loro. Non ancora.