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 2014  luglio 27 Domenica calendario

IL GADGET CHE CONTROLLA LA POSTURA E L’UMORE


Google e Apple hanno recentemente abbracciato la visione futuristica della casa automatizzata, con pareti e abitanti muniti di minuscoli ma sofisticati sensori. Cosa c’è che non va in un futuro in cui la tecnologia si possa indossare (occhiali e lenti intelligenti, ma anche orologi e vestiti intelligenti che monitorano la nostra attività fisica) e trasformi il modo in cui giochiamo e ci rilassiamo?
Questa trasformazione della casa è solo una parte di quanto ci si prepara: le tecnologie indossabili modificheranno anche gli uffici, un punto sul quale Apple e Google tacciono, e che offre prospettive più inquietanti che utopiche: le tecnologie indossabili sarebbero perfette per aumentare la produttività e ridurre i costi, ma non si può negare il fatto che i sensori piccoli e sempre attivi su cui si basano terrebbero i dipendenti costantemente sotto controllo. Queste tecnologie possono anche fornirci degli stimoli. Prendiamo ad esempio due delle ultime innovazioni, che entreranno in commercio tra qualche mese. Una è un orologio intelligente chiamato Spark. Su Kickstarter viene pubblicizzato come «un orologio da polso che non ti permetterà di addormentarti in nessun momento importante della vita». Dotato di sensori che controllano la velocità e la frequenza dei movimenti, Spark riesce a determinare se siamo svegli, e inizia a vibrare quando si accorge che cediamo al sonno.
L’altra è Pavlok, un braccialetto intelligente. Una volta messo al corrente di un nostro proponimento — andare in palestra, svegliarsi alle 7, leggere dieci pagine di Heidegger al giorno — ci punirà con una scossa se non lo rispetteremo. Dato che tutte queste attività — fare ginnastica, dormire o leggere — sono ora facilmente monitorabili dagli smartphone, sarebbe terribilmente facile impartire punizioni. La maggior parte delle nostre azioni quotidiane, tradotte in codici digitali, possono infatti essere catalogate e analizzate singolarmente. Questi dispositivi vengono quasi sempre immessi sul mercato come strumenti destinati a cittadini seri che vogliono migliorare il proprio comportamento, ma sono accolti a braccia aperte dal mondo del lavoro, dove sta crescendo la consapevolezza che le tecnologie indossabili offrono un nuovo modo di analizzare e ottimizzare il lavoro. Quale capo non vorrebbe mantenere i dipendenti svegli e produttivi?

Nel novembre scorso la «Harvard Business Review» ha pubblicato un curioso articolo sulla nascita della physiolytics : un brutto termine che denota il processo di integrazione dei dispositivi indossabili e di vari prodotti software per l’analisi dei dati, utilizzati per il monitoraggio delle prestazioni dei dipendenti. L’autore, va riconosciuto, non ha nascosto il fatto che la physiolytics è semplicemente una forma innovativa di taylorismo, con la sua attrazione per lo studio dei tempi e dei movimenti dei lavoratori, anche se ora si basa su sofisticati sensori e software per raccogliere e analizzare i dati. Non stupisce che ultimamente ci siano tante start-up desiderose di entrare nel mercato delle tecnologie indossabili: le aziende hanno molto più denaro da spendere per questi dispositivi dei singoli consumatori. Prendiamo la XOEye Technologies — una start-up che produce occhiali intelligenti per gli operai, anziché per le élite digitali. Gli occhiali XOEye non hanno tutte le caratteristiche, a volte francamente esagerate, dei Google Glass — hanno dei pulsanti anziché comandi vocali, perché le fabbriche sono troppo rumorose — ma hanno sofisticate funzioni finalizzate al controllo del lavoratore. Sono ad esempio dotati di sensori che rilevano quando un operaio si china, registrano questo movimento come un «evento biometrico» e lo salvano in un database che verrà esaminato dal management. Come ha detto a «PCWorld» il fondatore della società, l’idea è che «se un operaio si china 60 volte al giorno, potrebbe in futuro soffrire di mal di schiena. L’azienda potrebbe allora decidere di cambiare il modo in cui lo utilizza, o di trasferirlo in un altro reparto». Ma anche se un’azienda non può permettersi questi occhiali — costano 500 dollari l’uno, più un canone di abbonamento mensile di 99 dollari — potrebbe almeno acquistare i Lumo Back, sottilissimi sensori che si applicano ai fianchi e controllano la nostra postura mentre siamo seduti in ufficio. Ogni volta che il sensore rileva che non stiamo diritti, vibra, ricordandoci gentilmente che la nostra schiena è un valore per l’azienda.
Ai datori di lavoro questi gadget non possono che piacere: meglio spendere soldi per qualche sensore o un paio di occhiali che pagare l’assicurazione e le spese mediche — con il rischio, per di più, di perdere alcuni dei dipendenti migliori. Questi risparmi possono essere anche piuttosto consistenti. Le aziende — più che la casa — sono i luoghi principali in cui introdurre, perfezionare e mettere alla prova queste tecnologie. Prendiamo Appirio, una società del settore tecnologico con uffici in America e India. L’anno scorso ha fatto indossare a 400 dipendenti dei sensori che monitoravano la loro attività fisica. I dati ottenuti sono poi stati utilizzati per convincere l’assicurazione ad abbassare i costi per la copertura sanitaria di 280 mila dollari, perché si è potuto dimostrare che i dipendenti camminavano e facevano esercizio fisico molto più di quanto la compagnia di assicurazione avesse ipotizzato.
Se si possono ricavare vantaggi così consistenti semplicemente registrando i nostri movimenti — non solo in ufficio ma anche fuori — sarà ancora più interessante usare i sensori per monitorare altre attività.
Robin, una start-up di Boston, dota gli uffici di sensori wireless che comunicano con gli smartphone di dipendenti e dirigenti, dando informazioni su chi sta entrando nella loro stanza («chi», in questo caso, non è solo un nome — ma è anche la pagina Facebook e LinkedIn di un individuo). È quel che fanno già i social media, con i check-in automatici e le continue notifiche: questa logica si sta ora estendendo al posto di lavoro. Anche la creatività può essere ormai misurata e monitorata in tempo reale, indossando una fascia intelligente che controlla le onde cerebrali.
Un’altra start-up, Melon, entro l’estate immetterà sul mercato il primo lotto di questi dispositivi. Come fa notare l’articolo della «Harvard Business Review», la fascia aiuta chi la indossa a capire l’andamento delle sue attività cognitive, misurando «i picchi di onde cerebrali gamma che si verificano pochi millisecondi prima dell’«aha» che segue a una scoperta — dati che potrebbero, nel tempo, dare agli utenti un’idea di quando hanno più probabilità di essere creativi».


Oltre alla creatività, anche le reazioni negative si prestano bene ad essere analizzate. Alcune aziende raccolgono tutti i dati possibili di questo tipo (compresi i Big Data) sui dipendenti per cercare di capire se stanno pensando di licenziarsi o di cambiare lavoro. Il benessere emotivo di un dipendente può così essere tradotto in un punteggio, che indica quanti problemi potrà avere l’azienda se il management non interverrà in merito. Per quanto attraente sia fare le foto delle vacanze con gli occhiali intelligenti, gli usi personali delle tecnologie indossabili sono poco significativi e banali rispetto a quelli possibili nei luoghi di lavoro. Purtroppo il fervore con cui questi dispositivi vengono presentati come rivoluzionari nasconde il fatto che non sono che la continuazione delle precedenti forme di controllo aziendale. Le chiamiamo physiolytics , Big Data o tecnologie indossabili, ma sarebbe meglio chiamarle «taylorismo digitale». In un certo senso vanno molto più in là del taylorismo: basandosi su attività e dati generati anche al di fuori dell’ufficio, fanno sì che la logica del lavoro domini anche quegli aspetti della vita che in precedenza ne erano al riparo.
(traduzione di Maria Sepa)