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 2014  luglio 27 Domenica calendario

IL PIÙ GRANDE MUSEO DELLA CATTIVERIA


Tutte le sere, negli ultimi anni, il marchese triestino Diego de Henriquez si piazzava sul viso una maschera da samurai, si calava sulla testa un elmetto prussiano e si sdraiava per dormire in una cassa da morto: «Così i pensieri notturni non mi sfuggono e la mattina, al risveglio, li ritrovo lì, sotto l’elmo e la maschera».
Certo non gli sarebbe comunque scappato via il pensiero numero uno. Il suo chiodo fisso. La sua ossessione: dare vita al «più grande, inquietante, tragico museo della cattiveria umana».
«El mato dei canoni», lo chiamavano i triestini. Così strambo da mangiarsi ogni sua ricchezza per mettere insieme la più spropositata collezione privata al mondo di oggetti di ogni genere che avessero a che fare con il mondo militare, le armi, la guerra.
Erede di una nobile famiglia d’origine spagnola che destinava da generazioni il primogenito all’Accademia della Marina imperiale dell’impero austroungarico, Diego de Henriquez aveva cominciato a raccogliere il suo materiale comprando nei mercatini antiche cartoline, vecchie mostrine e fotografie sgualcite. Divorato via via dalla febbre di avere tutto («L’intera produzione mondiale non è in grado di soddisfare le mie esigenze», scrisse) arrivò a farsi dare dagli Alleati perfino un ponte d’acciaio costruito sul canale della chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo. Ponte poi venduto come ferrovecchio per pagare un po’ dei debiti che lo avevano ridotto in miseria consegnandolo agli strozzini.
Verso la fine, scrisse il giornale «Bora», viveva come un barbone in un polveroso magazzino dove custodiva nel disordine totale i suoi cimeli e tirava avanti «ordinando nelle bettole piatti di 6 o 9 fagioli» che accompagnava, dopo una vita da astemio, con bevute così abbondanti da spingerlo addirittura a raccogliere secchio su secchio la pipì che faceva perché voleva scoprire quanto minge un uomo in un anno.
Quando morì nel 1974 nell’incendio del magazzino in cui dormiva, incendio così misterioso da lasciare per anni il sospetto di un omicidio compiuto per impedirgli di rivelare gli appunti di un quaderno dove aveva annotato le accuse ai collaborazionisti lasciate sui muri della risiera di San Sabba dagli ebrei passati per il camino (scritte presto cancellate con una mano di bianco), Diego de Henriquez lasciò tutto al Comune. Che si ritrovò con un ammasso enorme di pezzi unici e insieme cianfrusaglie da discarica.
C’erano treni blindati e pipe dipinte con scene belliche, spadini settecenteschi da cerimonia e giganteschi pezzi d’artiglieria come «Anie», il cannone atomico di Hitler, maschere antigas per i cani e sommergibili «tascabili», la divisa dell’imperatore Franz Joseph e gamelle di latta dove i ragazzi in trincea avevano inciso frasi tipo «Cara Giovanna aspettami che arrivo», enormi carri armati e soldatini di piombo, di legno, di carta, di plastica, di pasta, di stagno.
E poi dodicimila libri (dai codici militari di tutto il mondo agli antichi manuali sui sistemi di fortificazione), 24 mila fotografie (anche top secret come quelle sulle atrocità italiane in Libia e in Abissinia), 470 carte geografiche e topografiche, 150 quadri con immagini di guerra e bandiere, stampe, spade, manifesti, fucili…
Ci ha messo quarant’anni, il Comune di Trieste, per venire a capo della donazione. Immensa e generosa almeno quanto caotica e ingombrante. Ma domani, nell’ex caserma Duca delle Puglie nella zona dell’ippodromo, apre finalmente il «Museo della Guerra per la Pace Diego de Henriquez». La data scelta per l’inaugurazione non è casuale: il 28 luglio ricorre il centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. Che lacerò la città e i suoi abitanti, da sempre a cavallo tra la cultura italiana e quella mitteleuropea: «Fino a quel momento Trieste era il porto di riferimento di una parte di Europa», ricorda il sindaco Roberto Cosolini. «E lì cominciò il lungo tunnel che avrebbe visto condensarsi qui tutti gli orrori del Novecento, persecuzioni razziali, campi di sterminio, Foibe. Un periodo nero che priverà Trieste, per quasi tutto il Novecento, della sua funzione naturale quale luogo di incontro di idee, comunità e merci».
I ragazzi triestini vennero dilaniati dalla frattura etnica. Una parte passò il confine e si arruolò nell’esercito italiano, una parte finì in divisa austroungarica sul fronte galiziano. Anche per questo, spiegano la direttrice Maria Masau Dan e lo storico Lucio Fabi che ha curato il parto del museo, destinato ad ampliarsi fino a diventare uno dei più grandi d’Europa, tutti i pezzi esposti, ciclopici o minuscoli che siano, non saranno divisi per nazione ma solo per tema. Che senso ha, oggi, rinvangare l’odio e le divisioni piuttosto che lo strazio vissuto da tutti, di qua e di là, allo stesso modo?
Uno dei pezzi forti in esposizione sarà un carro funebre identico a quello che cento anni fa, tra una folla commossa e consapevole della guerra incombente, portò le salme di Francesco Ferdinando d’Asburgo e sua moglie Sofia dal porto alla stazione ferroviaria, da dove partì il treno per Vienna. Poi un obice 305 capace di sparare a 17 chilometri proiettili di 440 chili che costavano allora mille lire, una enormità. E uno di quei carri speciali che portavano le barche con cui venivano costruiti i ponti provvisori. O ancora un «carro ippotrainato uso ambulanza».
C’è un vecchio filmato in bianco e nero su YouTube. Il marchese Diego de Henriquez, in giacca e cravatta, elegante erre moscia di buona famiglia, non ancora ridotto in miseria e svuotato dalle delusioni e dall’alcol, mostra alla telecamera alcune delle sue armi più spropositate e minacciose spiegando il suo sconcerto: «Da un lato la “poderosità” dei mezzi di distruzione come questo cannone, dall’altro la povertà dei mezzi di salvataggio come questa piccola pompa dei pompieri…». Oppure, appunto, quello sgangherato carretto ambulanza… Che importava dei soldatini, agli alti ufficiali di allora? Lontano, ecco l’aria dolente di antiche canzoni di trincea: «O vigliacchi che voi ve ne state / tra le coltri su letti di lana / schernitori di noi carne umana / maledetti sarete un dì».