Katia Ippaso, Il Garantista 26/7/2014, 26 luglio 2014
ANIELLO ARENA – ATTORE DETENUTO
Per parlare con noi, Aniello Arena ha sottratto al suo permesso di uscita trenta minuti. Nella vita di un detenuto, mezz’ora può essere un tempo gigantesco, se è un tempo tolto alla vita, se dopo poche ore bisogna rientrare in cella. Anche se oggi la cella per lui è una cosa completamente diversa dal passato. La sua mente è fuori. Solo il corpo sta dentro. Da quando, nel carcere di Volterra, ha incontrato un uomo d’origine campana come lui. Armando Punzo, un regista di visioni grandi, che l’ha preso per mano e l’ha aiutato a lenire quel suo male d’anima che lo portava a desiderare di morire, sparire per sempre. A due anni dal Nastro d’Argento per il film di Matteo Garrone, Reality, di cui era protagonista (il regista romano l’aveva scelto dopo averlo visto recitare in carcere), Aniello Arena è il più convinto attore della Compagnia di detenuti della Fortezza diretta da Punzo, l’artista italiano che in questi 25 anni ha ribaltato completamente il rapporto tra il dentro e il fuori, in linea con Foucault, quando diceva che «si è sempre “fuori dal fuori”». Stasera andrà in scena fuori dal carcere l’ultima replica di Santo Genet (alle ore 21.15 al Teatro Persio Flacco di Volterra). Ancora una volta Aniello, 46 anni, indosserà un costume che lo porterà in una dimensione altra. E da questo spazio intermedio, preso nel suo volo azzoppato a cui è legato come all’acqua che beve, l’uomo racconta di sé: la detenzione, i desideri, l’inferno passato in celle dove si viveva come bestie, il rapporto tra il bene e il male. E la liberazione prima ancora che si venga liberati.
Si ricorda l’effetto che le fece leggere Genet per la prima volta? Qualche anno fa Punzo arrivò nella sua cella con “Notre Dame des Fleurs”..
Per come ho vissuto la mia vita, sono stato un signore rispetto a Genet. Io almeno ho avuto i genitori, che non è poco. Lui invece è stato abbandonato. Noi detenuti siamo diversi, ma lui era doppiamente diverso. Perché era anche omosessuale. Non è vero quello che fanno vedere al cinema: in carcere, ancora più che fuori, l’omosessualità non è tollerata. Quindi era un diverso nella diversità. Era stracciato. Non mangiava. Si prostituiva. Questa sua storia mi aveva molto colpito. Paragonavo la mia vita con la sua e mi ritenevo fortunato. Certo, poi Genet è diventato un grande scrittore. Ma quello che aveva dentro se l’è sempre portato dietro. Attraverso il carcere, anche lui ha avuto una trasformazione.
Che significa per lei abitare da dentro quel suo mondo, recitare la parole di Genet?
Quando interpreto un personaggio che arriva dal suo mondo, cerco di avere anch’io quell’ambiguità. Sono vestito da barbone ma mi dò delle arie. Mi piace giocare perché le persone non devono capire quello che sto facendo. Devono solo immaginare. Che poi Genet e i suoi personaggi mi somigliano proprio. Somigliano a me e a tutta la nostra compagnia, che spero veramente possa diventare una compagnia stabile.
Ha avuto altre offerte per ruoli cinematografici?
Qualcosa si sta muovendo, ma non lo dico per scaramanzia.
Dopo aver letto il suo libro (con Maria Cristina Olati, “L’aria è ottima (quando riesce a passare), Io attore, fine-pena-mai”, Rizzoli) – la storia della sua vita, dalle origini a Napoli, la miseria, le frequentazioni di strada, le rapine, il matrimonio, la perdita del padre, l’odissea per sottrarsi al proprio destino, l’aria cattiva del carcere, la condanna all’ergastolo – insomma, alla fine, nel momento in cui lei incontra un gesto umano nel carcere di Volterra, si tira un respiro di sollievo e alla fine sembra quasi un happy end. Ma non è così. A che punto è la sua vicenda giudiziaria?
Adesso sono in regime di semi-libertà. A giugno ho presentato richiesta della sospensione condizionale della pena. Ho fatto un percorso di reinserimento e spero che me la diano. Invede di ritirarmi in carcere, mi ritirerei a casa. Così finalmente prenderei casa.
A questo punto della sua vita, dopo assere cresciuto a Napoli ed aver vissuto a Genova e Livorno, prima dell’arresto e della condanna all’ergastolo, dove vorrebbe che fesse la sua casa?
La mia casa adesso è qui, a Volterra. Io lavoro a Carte Blanche, nell’organizzazione della Compagnia della Fortezza, con Punzo. Ed è qui che voglio stare. Poi un domani io non lo so.
Cosa ha lasciato a Napoli?
Lì c’è mia madre, ci sono i miei figli.
Quanti anni hanno adesso i suoi figli?
Ventisei e ventitré anni. La prima lavora, il secondo cerca lavoro, come tutti a Napoli.
Come tutti in Italia.
Già. Mi mancano tanto, i miei figli. Uno dei dolori più grandi che ho è di non essere riuscito a fare il padre.
Cito solo due frasi del suo libro sulla situazione carceraria: «A Poggioreale, se litigavi con una guardia, la “squadretta” ti veniva a prendere e ti portava in una delle celle d’isolamento. Laggiù nessuno sapeva più niente di te. Poteva succederti di tutto, anche di morire»; «L’umiliazione era la regola non scritta, come se i detenuti appartenessero a una categoria inferiore della specie umana, quella degli scarti»... Le fa ancora «male l’anima» quando è in cella?
Io ho superato tutto questo. Conosco le regole e mi ritiro in carcere quando devo rientrare. Ma in cella si ritira il mio corpo, non la mente.
Se. guarda indietro, pensa di essersi staccato dal ragazzo che era?
Io sono sempre stato così, ma non avevo la cultura giusta per mettermi a pensare. Io non pensavo abbastanza. Da ragazzo avevo una vita travagliata ma il carattere era lo stesso. Mi ricordo che anche quando andavamo in giro a fare le bravate, i miei amici mi dicevano: «se sto vicino a te, mi sento forte...». Adesso sono più consapevole del fatto che so trasmettere qualcosa di buono alle persone. Prima non avevo trovato nessuno che mi prendesse per mano e mi aiutasse a volgere queste energie in positivo. Io penso che l’essere umano può facilmente sprofondare nel negativo.. Fino a distruggersi. Se non trovi le compagnie giuste, e la forza dentro te stesso.
«Ho fatto rapine, scippi, mi sentivo colpevole per quella vita e volevo pagare. Ma un omicidio non l’avevo commesso». Lo dice con pudore. Poche righe.
Questo pudore ha diverse ragioni. Prima di tutto, io non sono stato creduto, nel primo, nel secondo e nel terzo grado di giudizio. Poi, all’inizio, quando parlavo in carcere di questa mia condizione, vedevo che agli occhi degli altri detenuti diventavo pesante. Molti piangevano e professavano l’innocenza e queste scene erano pesanti in carcere. Per cui ho smesso di dire la verità. Questa verità me la sono tenuta dentro. Non potevo urlarla. Le persone mi avrebbero evitato. L’ho detto solo a qualcuno che mi stavo più vicino che io non c’entravo niente con quei tre morti, perché ero a Genova, e sono venuti pure i testimoni a dire che ero a Genova... Mi sono detto: che lo dico a fare? tanto ormai sono qui dentro.
Insomma, si è adattato alle regole non scritte della nuova socialità dentro il carcere.
Ho passato momenti difficili. A Viterbo, quando prendevo i calci, quando mi umiliavano, io non sapevo proprio che avrei avuto dei diritti, dei permessi... Io veramente volevo morire, per farla finita. Pensavo: i miei familiari mi piangeranno una sola volta e non per tutta la vita... Venendo a Volterra, io sono rinato. Comunque, come me, ce ne sono tanti nella mia situazione. La differenza tra i giudici e i dottori è che quando sbaglia un dottore, questo paga, quando sbaglia un magistrato non paga. Non ci sono i mezzi per combattere. A volte lo sa come mi faccio coraggio? Mi dico: se fossi nato in America, forse avrei preso la condanna a morte. Qui almeno non c’è la condanna a morte.
Prova odio nei confronti di quel “giovane spacciatore” che fece il suo nome per la sparatoria di piazza Crocelle (era il mese di gennaio del 1991), e in base alla cui unica testimonianza lei ora sconta in carcere una condanna all’ergastolo?
Ho cercato, mi creda, con tutte le mie forze, con tutta la mia anima, di odiarlo. Ma non ci riesco. Vorrei incontrarlo. Io non ho mai fatto un vero confronto con lui. Solo una volta vorrei guardarlo negli occhi e dirgli: perché hai detto di avermi visto? Perché l’hai fatto?
Perché lo fece? Che risposta si è dato in tutti questi anni?
(Aniello resta qui in un silenzio che dura qualche minuto e sembra non finire mai): Non lo so. Avevo i miei parenti che stavano in mezzo alla strada. Erano rivalità di quartiere. Si toglie tutti da mezzo, in questi casi. Ma veramente io non lo so perché lui disse questa cosa. Io lo conosco questo qui. Io con il fratello mi facevo la semilibertà. Mi sono sempre chiesto: perché mi ha messo in mezzo? Perché? C’è anche da dire che allora erano leggi d’emergenza. C’erano state le stragi di Falcone e Borsellino. Chi si incagliava nella macchina della giustizia in quegli anni, rischiava di non uscirne più.