Sergio Romano, Corriere della Sera 28/7/2014, 28 luglio 2014
LA FRANCIA E LO STATO DI PÉTAIN DALL’OBLIO ALL’ESAME DI COSCIENZA
In una risposta lei afferma: «Putin non vuole un dibattito nazionale simile a quelli dei maggiori Paesi europei — Francia, Germania, Italia, Spagna — che sono tornati alla democrazia, dopo aver fatto esperienze autoritarie o totalitarie». Trovo nuovo l’accostamento della Francia agli altri Paesi citati, effettivamente autoritari e dittatoriali. In Francia, anche quando ha governato la destra, le libertà fondamentali non sono state abolite, se si eccettua il periodo del governo Pétain, imposto dall’occupazione nazista. Si riferisce quindi agli anni della guerra quando parla di dibattito nazionale in Francia?
Domenico Testa
Caro Testa,
Il regime instaurato dal maresciallo Pétain, dopo l’armistizio con la Germania, non fu imposto dagli occupanti. Fu anche la rivincita di una Francia paternalista, ostile alla democrazia parlamentare, erede di quegli «émigrés» che avevano lasciato il Paese durante la rivoluzione francese, intrisa di antisemitismo e nostalgie monarchiche. Charles Maurras, fondatore dell’Action Française, salutò la sconfitta come una «divina sorpresa». Intendeva dire che la guerra perduta avrebbe offerto alla nazione l’occasione per regolare i conti con la democrazia ciarliera e corrotta della Terza Repubblica. Le parole «liberté, égalité, fraternité» scomparvero dai simboli dello Stato francese e furono sostituite da un’altra terna: lavoro, famiglia, patria. Nel regime di Vichy vi fu di tutto: intellettuali fascisti e nazisti, opportunisti, uomini e donne in buona fede che cercavano di mitigare il rigore dell’occupazione tedesca. Ma la filosofia del regime fu certamente anti-repubblicana e anti-democratica.
Dopo la liberazione di Parigi e la fine della guerra, vi furono esecuzioni sommarie, processi, epurazioni e qualche condanna a morte, fra cui quella di uno scrittore molto noto, Robert Brasillach, a cui il generale de Gaulle negò la grazia. Ma i collaborazionisti erano troppi e troppo diversamente motivati perché la democrazia restaurata potesse permettersi di fare una pulizia prolungata e radicale. Come in Italia, entro un paio d’anni, gli epurati ritornarono a occupare le posizioni perdute e il Paese cominciò a parlare d’altro. Piuttosto che indulgere troppo a lungo sulle questioni del passato, la Francia ufficiale aveva interesse a valorizzare il contributo di de Gaulle e della resistenza interna alla liberazione del Paese e alla sconfitta della Germania.
Il problema di Vichy nella storia nazionale ridivenne attuale dopo i movimenti studenteschi del ’68. Nel 1971 apparve nelle sale cinematografiche un film di quattro ore («Le chagrin et la pitié», il dolore e la pietà), in cui si racconta la vita di una città di provincia, Clermont Ferrand, durante l’occupazione tedesca. Nel 1987 venne processato Klaus Barbie, comandante della Gestapo a Lione negli stessi anni. Dal film, dal processo e da altre vicende emersero comportamenti complici e ambigui di personalità francesi. Fece molto rumore la scoperta che François Mitterrand aveva collaborato con Vichy fino al 1942 ed era stato insignito di una decorazione del regime.
È questa, caro Testa, la ragione per cui ho incluso la Francia tra i Paesi che hanno fatto, dopo esperienze totalitarie o autoritarie, un sia pure tardivo esame di coscienza.