Alberto Arbasino, Corriere della Sera 28/7/2014, 28 luglio 2014
PAOLO VERONESE, IL PITTORE GLOBALE
Un paragone fra i cataloghi e gli allestimenti delle mostre quasi contemporanee sul Veronese alla National Gallery di Londra, col suo «completamento» presso la Gran Guardia di Verona, non può sembrare un’impresa «audace e ambiziosa», come dichiarano alcuni curatori. Al contrario, pare e risulta una iniziativa doverosa e opportuna, ben tempestiva in un territorio veneto che si allarga ai miti e ai riti e alle committenze illustri, e a un gran numero di prestatori e consulenti, tra Verona, Vicenza, Padova, Castelfranco Veneto, Bassano del Grappa, la mirabile Villa Barbaro a Maser. E Montagnana, Mantova, Modena, Fanzolo; e naturalmente la somma chiesa veneziana di San Sebastiano. Oltre che le Allegorie piuttosto carnali alla bella mostra del Louvre «Rivalités à Venise», a cura di Henri Loyrette e Arturo Galansino, col patrocinio dell’Eni, oltre che del Museum of Fine Arts di Boston.
Lì, i rivali veneziani erano ovviamente Tiziano e Tintoretto. Veronese, con Marte e Venere, nonché Europa, Cupido, Perseo e Andromeda, e numerosi santi e martiri, in compagnia di puttini molto paffuti, cagnoni e cavalloni molto galanti, molto allegorici. E i magnifici ritratti di dame e gentiluomini: Iseppo e Livia da Porto Thiene, con i figli già importanti.
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Ma non solo «il doge viene portato intorno la piazza San Marco, spargendo denari fino ai piedi della Scala dei Giganti», secondo le incisioni di Gabriele Bella, alla Pinacoteca Querini Stampalia. Anche nel Palazzo Ducale si affaccia il Veronese, per lavorare ai soffitti. Muoiono Tiziano e Palladio, ed ecco un Doge Cicogna mentre si inaugura il Teatro Olimpico a Vicenza. Sale al trono Rodolfo II, a Praga... Dunque — in attesa di qualche improbabile Doge di Palazzeschi — parrà più giusto rifarsi al sommo Viatico per Cinque Secoli di Pittura Veneziana del nostro grande Roberto Longhi. E dunque a «quella cert’aria di tedescheria, poco spirabile, che gravava sul corpo saggistico e pittorico “serpentinato” apparso al Veronese come un costume naturale dell’epoca. Come un mondo moderno che occorreva rappresentare, ma sciogliendolo in una “universale armonia” di nuovo calma e soluta come in Tiziano, nell’Ariosto e, ora, nell’amico Palladio».
«Quelle torsioni, quegli svincoli, si calmano, naturalmente immessi entro le scale, scroscianti all’infinito, dell’invenzione tonale...».
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Quanti banchetti architettonici e signorili. E non soltanto a Venezia, fra un Rinascimento lussuoso e vari sfarzosi Manierismi e i Vetri e le Pesti e i Cavalli e la Difesa del Levante, con una Battaglia di Lepanto «raggistica» in un groviglio di remi e coperture in presenza di Vergine e Santi. Addirittura a Delhi, tanti anni fa, si poté scorgere un Veronese esposto a tutti i venti al National Museum, dove si facevano interessanti scoperte italiane al secondo piano. Ma quel ritratto veronesiano davanti alle finestre aperte veniva dall’Hermitage di San Pietroburgo. (Allora, ancora Leningrado).
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Con perplessità e rammarico, forse, malgrado l’ingresso gratuito si notava l’assenza dei cosiddetti «bei nomi» superstiti, al Figliuol Prodigo di Benjamin Britten, nella basilica d’Aracoeli, a cura del romano Teatro dell’Opera. Qui si osserva infatti una fondamentale differenza con i nostri maestri, da Verdi a Puccini. Grandi interessi per la voce, soprattutto tenorile. E nessuna voglia di comporre opere in collaborazione con scolaresche di apprendisti.
Ricordo bene che una intenditrice, dopo aver visto ogni spettacolo al Festival di Aix-en-Provence, giunse a Ibiza dichiarando che il meglio di tutto era Curlew River , appunto di Britten. Com’era vero! Se ne è avuta una vivace conferma l’anno scorso, qui all’Aracoeli. Ma stavolta, con lo stesso Abate che rappresenta il Tentatore, diventa forse un po’ facile un Padre che «capisce, sono stato giovane anch’io», mentre il Figlio Maggiore si occupa della terra, bofonchiando, e il Minore incomincia il viaggio alla viziosa Metropoli.
Ivi, si sa, i poveri Dabbene cadono fatalmente preda dei Parassiti. E quindi: «Porcaro! Compagno dei maiali! Il mio raccolto è la disperazione! La fine è amarezza! Questa è la fine!».
Ma il buon papà fa ammazzare il Vitello Grasso, e allora lì bisognerebbe immaginare cosa ne pensa il Vitello Grasso. Anche se il solito Abate, non più Tentatore, se la cava invocando clemenze e benedizioni e protezioni, rustiche e campestri. Ma nel Vizio dell’arte di Alan Bennett, W. H. Auden («Thomas Mann era mio suocero») parla della Morte a Venezia con Benjamin Britten che si accinge a musicarla. E allora, insomma: «Qual è l’età che oggi si può ammirare legalmente? Il ragazzo di Mann aveva undici anni. Nel libro gliene dà quattordici. Se tu adesso proponi sedici, di questo passo tra poco prende la pensione».
Ma Britten: «L’innocente è Aschenbach. Il tentatore è il ragazzo. Se tutte le mie opere trattano della perdita dell’innocenza, qui l’innocenza appartiene al... vecchio».
E Auden: «Che c’entra l’innocenza? Non è una corruzione. È una collaborazione. Si tratta di un ragazzino in spiaggia, su. E metà Aldeburgh ti manda i figli maschietti, anche se poi brontolano sul solito tema dell’innocenza corrotta».
Una esecuzione britannica decorosissima per The Prodigal Son . Solo monaci, un mucchietto di stracci, un Tentatore senza nemmeno le mire di Aschenbach o Mann in spiaggia. Nelle Città del Peccato, forse basta sentire qualche gamelan a Bali e assistere a qualche noh in Giappone, per comporre una parabola molto edificante? Ma dove vanno a dormire, poi, gli undici monaci, i cinque accoliti, gli otto confratelli profani? E i servi, i parassiti, i maiali, o magari quel Tentatore che si vanta degli artifizi sopraffini per disgiungere le famigliuole?
...E neanche una mamma, una nonna, una zia...
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Come è cambiata, la già famosa Piazzetta di Capri. Adesso, in preda a vasti gruppi di ragazzini napoletani che ristabiliscono i tradizionali ordini — ragazzini contro le ragazzine — senza tollerare eccentricità e stravaganze. Già illustri e famose. La Piazzetta prosperava sulle stravaganze, tipo «Totò a Capri» o «a Capri c’è la gioia della vita, a Capri c’è la cica-cica-bum-ci»...
Ma adesso, senza spendere o incassare soldi, come faranno i locali?
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Pordenone davvero legge?... Si rimase con una immagine contraria, parecchi anni fa, perché in un pomeriggio festivo il teatro principale era pieno. Tanta gente, e si divertivano molto: duettavo con Raffaele Manica, sul palco, e poi eravamo invitati da Matteo Codignola, nella pizzeria di fronte. Però nessuno si offriva di comprare una copia, dalle pile all’ingresso. E allora, si ragionò: neanche con Shakespeare o Pirandello, si comprano i testi dopo lo spettacolo.
Poi si presentarono alcuni anziani, con vecchie copie ormai fuori da tutto. Si commentò: ma che strano. Tanti conservano le prime edizioni, e desiderano la firma. Sono lettori di una volta!
Ma presto si capì. Erano rivenditori di libri usati, e con una firma o una dedica potevano aumentare un pochino il prezzo.