Valerio Cappelli, Corriere della Sera 26/7/2014, 26 luglio 2014
NUCCI: SONO NATO IN FABBRICA E DIFENDO L’OPERA DI ROMA
«I sindacati esagerano, manca l’idea del bene comune» ROMA — «L’Opera di Roma la sentivo casa mia, vi ho debuttato nel 1967. A Roma ho vissuto per sette anni, vi ho cantato di tutto di più, lavorando con Zeffirelli, Guttuso, Menotti. L’ultima volta è stata per il Nabucco diretto da Riccardo Muti. Per questo ho il cuore triste per la minaccia di chiusura. Spero che i sindacati che protestano, che sono il 30 percento sul totale, come ho letto, si ravvedano».
Parla Leo Nucci, 510 Rigoletti alle spalle (il prossimo in Cina, è in partenza proprio oggi, più in là l’aspettano Berlino e la Scala). Il padre nobile della lirica in Italia giudica la situazione paradossale che si è venuta a creare al teatro lirico romano, dove una minoranza di lavoratori aderenti a Cgil e Fials non accetta l’accordo (indispensabile per avere i soldi dallo Stato e uscire dal debito enorme di 33 milioni). «Una vicenda vergognosa che rovina l’immagine del Paese nel mondo», dice il segretario Raffaele Bonanni della Cisl, favorevole alla trattativa. Senza accordo, secondo la nuova legge, il teatro chiude. Intanto questa sera il teatro ha deciso di sospendere la replica della Bohème a Caracalla. E martedì all’ordine del giorno del Cda c’è la liquidazione coatta del teatro.
L’Opera a Roma non riesce a farsi amare, la musica è rappresentata dall’Accademia di Santa Cecilia.
«Non c’è dubbio, hanno un auditorio che è una meraviglia e un’orchestra straordinaria. C’è stato un periodo che all’Opera senza biglietto gratis non andava nessuno. La lirica deve essere un bene sociale: per diventarlo, devi aumentare la produttività. Pereira, il sovrintendente alla Scala, in una città che non arriva a 400 mila abitanti come Zurigo toccò 38 titoli e 268 recite all’anno, 14 nuove produzioni, e i giovani entravano con gli spiccioli. All’epoca di Cresci, negli Anni 90, si spendeva come pazzi, però il teatro era pieno. Nella capitale bisogna creare un pubblico, che non è quello che va alle prime per farsi vedere».
Certi sindacati vogliono mantenere il controllo di ogni decisione.
«Io nasco operaio, prima di cantare sono stato maniscalco e meccanico. Mio padre era minatore. Sono stato corista. Figuriamoci se non ho sensibilità sindacale. Ma questa è una storia diversa. Quando leggo che il primo violino in sei mesi ha lavorato 62 giorni mi arrabbio. La Bindi da ministro della Sanità impose per legge che chi lavora in ospedale non può lavorare fuori. In un teatro mi chiesero se potevo anticipare la prova generale. Bene. Poi vidi che i solisti del teatro quella sera tenevano un concerto altrove».
Colpa dei sindacati?
«Diciamolo, sono una lobby, bisogna metterselo in testa, c’è un andazzo da voto di scambio. E poi i teatri hanno bisogno di meno impiegati negli uffici amministrativi».
Gli scioperi all’estero?
«A Vienna una sola volta: ma era lo sciopero di tutta la città. Intendiamoci, a Parigi negli Anni 70 chiusero il teatro e rinacque. Al Met di New York nel 1984 l’orchestra aveva chiesto un aumento di stipendio, la direzione del teatro disse: i soldi che chiedete non ci sono, tutti a casa. E chiuse il teatro. Condivido ciò che dicono sindaco e sovrintendente di Roma: la chiusura può essere un’opportunità. Anche se io penso che all’ultimo minuto i sindacati scenderanno a patti per un compromesso».
Riccardo Muti, che è direttore onorario, ha sempre detto: a Roma resto se si lavora bene.
«Ecco, se i lavoratori parlassero con Muti, si potrebbe trovare una mediazione. Un teatro deve avere, come dice Pappano, da una parte l’idea anglosassone del bene comune e del gioco di squadra, dall’altra un direttore musicale, che abbia la fiducia di Muti e faccia il lavoro quotidiano. E’ l’unica strada per costruire un percorso e far crescere l’orchestra».
Fu sorpreso quando un direttore come Muti accettò di lavorare in un teatro non di prima fascia?
«In fondo lui è un sognatore. Non credo, come sostiene qualcuno, che sia stata una rivalsa con la Scala, non è sciocco da pensare che Roma nella lirica possa prendere il posto di Milano, questo non accadrà mai. Ci vorrebbe più umiltà da parte di tutti e meno interessi privati. All’Opera di Roma è rimasta la mentalità della suddivisione del potere tra i principali partiti. In un piccolo teatro come Piacenza, dove ho cantato, hanno aumentato le presenze di 20 mila spettatori, risparmiando 100 mila euro: e abbiamo fatto il più bel Simon Boccanegra possibile».
Cosa dobbiamo importare dall’estero?
«Mi spiega perché all’estero il top fee è 13 mila dollari, e ci cantano tutti, e in Italia è 17 mila euro? Al cast di Piacenza ho detto: ragazzi, di questi tempi diamo un segnale, abbassiamoci il cachet. Io l’ho fatto, ho tagliato il venti percento del mio compenso».