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 2014  luglio 28 Lunedì calendario

IL PALLONE IN TRINCEA

Dicevano i generali: «Non sarà sopravvissuto nemmeno un topo». La notte del 30 giugno 1916 il capitano Billie Nevill scoprì che mentivano. In ricognizione nella terra di nessuno vide le trincee tedesche intatte dopo una settimana di bombardamenti. Capì che il giorno successivo, il primo della grande offensiva sulla Somme, ai suoi uomini sarebbe servito qualcosa di più forte del rum che trangugiavano da mesi. Poco prima delle 7.30, mentre migliaia di ragazzi si alzavano tremanti per lanciarsi all’assalto, il capitano Nevill tirò fuori due palloni e ordinò ai suoi di andare a far gol nella trincea tedesca. Sul primo c’era scritto: «Finale della Grande Coppa Europea, East Surrey vs Bavaresi, calcio d’inizio all’ora zero»; sul secondo, semplicemente: «Non c’è arbitro». Venne l’ora zero e Nevill calciò, lanciando i suoi nella carica più surreale di cui si abbia memoria, la «Football Charge». Il capitano cadde pochi minuti dopo, all’altezza del filo spinato che aveva osservato la notte precedente. Lo stesso da cui a fine giornata – dopo aver contato 20 mila morti solo nelle file britanniche - fu recuperato uno dei palloni.

Lo spaccone Sulla Somme cadde anche Leigh Roose, forse il più grande portiere dell’anteguerra, servendo nello stesso reggimento di Nevill. Uno spettacolo in campo, incontenibile fuori: donne, alcol, lusso. Una volta perse il treno per una trasferta e ne noleggiò uno tutto per sé, inviando il conto allo Stoke (comprensivo di due pence per la doppia sosta in bagno). Venne inghiottito dalla terra di nessuno. Forse il più noto, solo uno fra le migliaia di calciatori che persero la vita nella Grande Guerra. Molti sono rimasti sconosciuti perché, tolta la Gran Bretagna, il calcio era ancora agli albori. In Austria, Italia, Francia i giocatori furono tra i primi a cadere. In Inghilterra no: il professionismo precludeva la possibilità di arruolarsi senza il consenso del club. Furono polemiche roventi contro i (presunti) bamboccioni. Si schierò perfino Arthur Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes ed ex portiere dilettante: «C’è stato un tempo per tutto, ma ora ce n’è per una cosa soltanto, ed è la guerra (…) Se un calciatore ha forza nelle gambe, che si arruoli e marci sul campo di battaglia». I primi a rispondere furono gli scozzesi dell’Heart of Midlothian, che si presentarono in blocco all’ufficio reclute. Piansero sette morti, tre il primo giorno della Somme, e tornarono a giocare solo in quattro. Peggio andò al Tottenham, che perse 11 fra giocatori e membri dello staff .

Il maggiore Il campionato 1915-16 non partì, e il governo pensò di sfruttare la popolarità del football creando un battaglione di soli giocatori e tifosi. Accorsero a centinaia: il primo fu Frank Buckley, difensore del Bradford, da allora detto «il maggiore». A metà anni 30, scrisse amaro, dei 600 uomini del «Football Battalion» erano morti in più di 500. Donald Bell, anche lui del Bradford, passò alla storia per aver espugnato un nido di mitragliatrice da solo, uccidendo – o almeno così vuole la leggenda – 50 tedeschi in un colpo. Gli fu assegnata la Victoria Cross, ma non lo scoprì mai: morì cinque giorni dopo, nel tentativo di ripetere l’impresa. Walter Tull, nipote di una schiava e orfano dai 9 anni, fu il secondo giocatore di colore a calpestare l’erba del campionato inglese. Si arruolò nel «Football Battalion», e si distinse al punto da diventare il primo ufficiale di colore nell’esercito britannico, malgrado il regolamento impedisse di prendere i gradi a «qualsiasi negro». Tull guadagnò un encomio in un raid sul Piave ghiacciato. Quando venne ucciso, nel 1918 in Francia, i suoi bianchissimi uomini sfidarono granate e cecchini per tentare di recuperarne il corpo. Cadde anche Sandy Turnbull, stella dello United, autore del primo gol nella storia dell’Old Trafford, radiato a vita per una storiaccia di scommesse. Chi si salvò, invece, fu il più follemente coraggioso: William Angus, ex Celtic, andò a recuperare un compaesano ferito a pochi passi dalla trincea nemica. Quello chiedeva acqua, i tedeschi gli tirarono una granata. Appena lo seppe, Angus si fece legare una corda intorno ai fianchi e partì. Riuscì nell’impresa, martoriato da 40 ferite. Perse un occhio e un piede.

Il capitano In Italia il calcio era ancora affare da pionieri. Secondo la Figc furono 258 i giocatori impegnati in battaglia. Cadde Virgilio Fossati, ex capitano e allenatore dell’Inter, a segno nella prima partita degli azzurri, nel 1910 con la Francia. E cadde Giuseppe Caimi, pure lui interista, che avrebbe dovuto prendere il posto di Fossati alle Olimpiadi di Stoccolma (1912). Poi qualcuno raccontò al c.t. Vittorio Pozzo che Caimi era andato a festeggiare la convocazione in un locale al grido di «Svedesone bionde, aspettatemi!». «Una domenica faceva grandi cose, e la seguente non arrivava nemmeno al campo perché, per istrada, aveva trovato una bella ragazza» scrisse il c.t. Dopo la mancata convocazione fra i due calò il gelo, finché non si ritrovarono negli alpini. «La lunga penna nera fece da paciere, ci riconciliammo nel caos di una sbornia piramidale». Caimi guadagnò due medaglie d’argento e una d’oro: ferito, scappò dall’ospedale per riprendere a combattere, fino al proiettile che lo uccise. Pozzo gli sopravvisse, e certo la trincea contribuì a formare il piglio marziale con cui resse l’Italia. Morì uno dei fondatori della Juventus, Enrico Canfari, sul Monte San Michele. E morì uno dei padri della più grande squadra d’anteguerra: James Spansley, inglese del primo Genoa, ferito mentre soccorreva un soldato tedesco. Spirò dopo un mese di agonia a Magonza. Il 22 settembre 1917 invece non era giunta l’ora del genoano Giuseppe Castruccio. Il dirigibile da cui aveva bombardato Trieste perse rapidamente quota dopo essere stato colpito dal fuoco austriaco. Lui si arrampicò sull’involucro del pallone e col suo peso riequilibrò la picchiata. Medaglia d’oro, e 26 anni dopo guadagnò anche il titolo di Giusto fra le Nazioni, quando - console a Salonicco - facilitò la fuga di 113 ebrei.

Il guardiano «L’inutile strage», come la definì Benedetto XV, cambiò il mondo, e col mondo cambiò il pallone. La società di massa che sorse dalle ceneri della Belle Époque trovò nel calcio il suo collante. Un gioco universale, interclassista, lingua franca del Secolo breve. Milioni di pastori, contadini, artigiani ebbero modo di giocare con un pallone per la prima volta nelle caserme: «Esercizio di disciplina nello sforzo violento» esaltava il football la rivista di fanteria dell’esercito francese - presso cui guadagnò una medaglia al valore anche Jules Rimet, inventore della Coppa del mondo. Se è vero che la durissima Pace di Versailles (1919) seminò i germi per l’ascesa di Hitler, lascia sgomenti leggere il destino della Germania nella parabola di due calciatori-soldato. Julius Hirsch, bandiera del Karlsruher, fu il primo ebreo a vestire la maglia tedesca. Segnò 4 gol all’Olanda nel 1912, e nemmeno la croce di ferro ottenuta al fronte lo salvò nel 1943 dalla morte ad Auschwitz; 29 anni prima, per pochi mesi non aveva incrociato in nazionale Otto Harder dell’Amburgo: anche lui decorato in trincea, si arruolò con le Ss e fu guardiano in un campo di concentramento. Dopo la sconfitta del nazismo venne condannato a 15 anni per crimini di guerra.

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ANDREA LUCHETTA
Dicevano i generali: «Non sarà sopravvissuto nemmeno un topo». La notte del 30 giugno 1916 il capitano Billie Nevill scoprì che mentivano. In ricognizione nella terra di nessuno vide le trincee tedesche intatte dopo una settimana di bombardamenti. Capì che il giorno successivo, il primo della grande offensiva sulla Somme, ai suoi uomini sarebbe servito qualcosa di più forte del rum che trangugiavano da mesi. Poco prima delle 7.30, mentre migliaia di ragazzi si alzavano tremanti per lanciarsi all’assalto, il capitano Nevill tirò fuori due palloni e ordinò ai suoi di andare a far gol nella trincea tedesca. Sul primo c’era scritto: «Finale della Grande Coppa Europea, East Surrey vs Bavaresi, calcio d’inizio all’ora zero»; sul secondo, semplicemente: «Non c’è arbitro». Venne l’ora zero e Nevill calciò, lanciando i suoi nella carica più surreale di cui si abbia memoria, la «Football Charge». Il capitano cadde pochi minuti dopo, all’altezza del filo spinato che aveva osservato la notte precedente. Lo stesso da cui a fine giornata – dopo aver contato 20 mila morti solo nelle file britanniche - fu recuperato uno dei palloni.

Lo spaccone Sulla Somme cadde anche Leigh Roose, forse il più grande portiere dell’anteguerra, servendo nello stesso reggimento di Nevill. Uno spettacolo in campo, incontenibile fuori: donne, alcol, lusso. Una volta perse il treno per una trasferta e ne noleggiò uno tutto per sé, inviando il conto allo Stoke (comprensivo di due pence per la doppia sosta in bagno). Venne inghiottito dalla terra di nessuno. Forse il più noto, solo uno fra le migliaia di calciatori che persero la vita nella Grande Guerra. Molti sono rimasti sconosciuti perché, tolta la Gran Bretagna, il calcio era ancora agli albori. In Austria, Italia, Francia i giocatori furono tra i primi a cadere. In Inghilterra no: il professionismo precludeva la possibilità di arruolarsi senza il consenso del club. Furono polemiche roventi contro i (presunti) bamboccioni. Si schierò perfino Arthur Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes ed ex portiere dilettante: «C’è stato un tempo per tutto, ma ora ce n’è per una cosa soltanto, ed è la guerra (…) Se un calciatore ha forza nelle gambe, che si arruoli e marci sul campo di battaglia». I primi a rispondere furono gli scozzesi dell’Heart of Midlothian, che si presentarono in blocco all’ufficio reclute. Piansero sette morti, tre il primo giorno della Somme, e tornarono a giocare solo in quattro. Peggio andò al Tottenham, che perse 11 fra giocatori e membri dello staff .

Il maggiore Il campionato 1915-16 non partì, e il governo pensò di sfruttare la popolarità del football creando un battaglione di soli giocatori e tifosi. Accorsero a centinaia: il primo fu Frank Buckley, difensore del Bradford, da allora detto «il maggiore». A metà anni 30, scrisse amaro, dei 600 uomini del «Football Battalion» erano morti in più di 500. Donald Bell, anche lui del Bradford, passò alla storia per aver espugnato un nido di mitragliatrice da solo, uccidendo – o almeno così vuole la leggenda – 50 tedeschi in un colpo. Gli fu assegnata la Victoria Cross, ma non lo scoprì mai: morì cinque giorni dopo, nel tentativo di ripetere l’impresa. Walter Tull, nipote di una schiava e orfano dai 9 anni, fu il secondo giocatore di colore a calpestare l’erba del campionato inglese. Si arruolò nel «Football Battalion», e si distinse al punto da diventare il primo ufficiale di colore nell’esercito britannico, malgrado il regolamento impedisse di prendere i gradi a «qualsiasi negro». Tull guadagnò un encomio in un raid sul Piave ghiacciato. Quando venne ucciso, nel 1918 in Francia, i suoi bianchissimi uomini sfidarono granate e cecchini per tentare di recuperarne il corpo. Cadde anche Sandy Turnbull, stella dello United, autore del primo gol nella storia dell’Old Trafford, radiato a vita per una storiaccia di scommesse. Chi si salvò, invece, fu il più follemente coraggioso: William Angus, ex Celtic, andò a recuperare un compaesano ferito a pochi passi dalla trincea nemica. Quello chiedeva acqua, i tedeschi gli tirarono una granata. Appena lo seppe, Angus si fece legare una corda intorno ai fianchi e partì. Riuscì nell’impresa, martoriato da 40 ferite. Perse un occhio e un piede.

Il capitano In Italia il calcio era ancora affare da pionieri. Secondo la Figc furono 258 i giocatori impegnati in battaglia. Cadde Virgilio Fossati, ex capitano e allenatore dell’Inter, a segno nella prima partita degli azzurri, nel 1910 con la Francia. E cadde Giuseppe Caimi, pure lui interista, che avrebbe dovuto prendere il posto di Fossati alle Olimpiadi di Stoccolma (1912). Poi qualcuno raccontò al c.t. Vittorio Pozzo che Caimi era andato a festeggiare la convocazione in un locale al grido di «Svedesone bionde, aspettatemi!». «Una domenica faceva grandi cose, e la seguente non arrivava nemmeno al campo perché, per istrada, aveva trovato una bella ragazza» scrisse il c.t. Dopo la mancata convocazione fra i due calò il gelo, finché non si ritrovarono negli alpini. «La lunga penna nera fece da paciere, ci riconciliammo nel caos di una sbornia piramidale». Caimi guadagnò due medaglie d’argento e una d’oro: ferito, scappò dall’ospedale per riprendere a combattere, fino al proiettile che lo uccise. Pozzo gli sopravvisse, e certo la trincea contribuì a formare il piglio marziale con cui resse l’Italia. Morì uno dei fondatori della Juventus, Enrico Canfari, sul Monte San Michele. E morì uno dei padri della più grande squadra d’anteguerra: James Spansley, inglese del primo Genoa, ferito mentre soccorreva un soldato tedesco. Spirò dopo un mese di agonia a Magonza. Il 22 settembre 1917 invece non era giunta l’ora del genoano Giuseppe Castruccio. Il dirigibile da cui aveva bombardato Trieste perse rapidamente quota dopo essere stato colpito dal fuoco austriaco. Lui si arrampicò sull’involucro del pallone e col suo peso riequilibrò la picchiata. Medaglia d’oro, e 26 anni dopo guadagnò anche il titolo di Giusto fra le Nazioni, quando - console a Salonicco - facilitò la fuga di 113 ebrei.

Il guardiano «L’inutile strage», come la definì Benedetto XV, cambiò il mondo, e col mondo cambiò il pallone. La società di massa che sorse dalle ceneri della Belle Époque trovò nel calcio il suo collante. Un gioco universale, interclassista, lingua franca del Secolo breve. Milioni di pastori, contadini, artigiani ebbero modo di giocare con un pallone per la prima volta nelle caserme: «Esercizio di disciplina nello sforzo violento» esaltava il football la rivista di fanteria dell’esercito francese - presso cui guadagnò una medaglia al valore anche Jules Rimet, inventore della Coppa del mondo. Se è vero che la durissima Pace di Versailles (1919) seminò i germi per l’ascesa di Hitler, lascia sgomenti leggere il destino della Germania nella parabola di due calciatori-soldato. Julius Hirsch, bandiera del Karlsruher, fu il primo ebreo a vestire la maglia tedesca. Segnò 4 gol all’Olanda nel 1912, e nemmeno la croce di ferro ottenuta al fronte lo salvò nel 1943 dalla morte ad Auschwitz; 29 anni prima, per pochi mesi non aveva incrociato in nazionale Otto Harder dell’Amburgo: anche lui decorato in trincea, si arruolò con le Ss e fu guardiano in un campo di concentramento. Dopo la sconfitta del nazismo venne condannato a 15 anni per crimini di guerra.