Andrea Monti, La Gazzetta dello Sport 28/7/2014, 28 luglio 2014
NORMALE E VINCENTE, UN UOMO AUTENTICO IN CIMA AL MONDO
Un italiano in bicicletta vola sui Campi Elisi, il paradiso degli eroi cari agli dei. L’immagine del suo trionfo su una Gazzetta eccezionalmente vestita di giallo ferma un’emozione che rapisce il cuore, un momento indimenticabile per il nostro sport e per tutto il Paese. Un siciliano a Parigi sullo sfondo del gigantesco arco di pietra voluto due secoli fa da un altro isolano, Napoleone Bonaparte, per celebrare le vittorie che fanno la storia...
Eccolo lì Vincenzo Nibali, re del Tour, sul podio più scenografico, esagerato, imponente e ambito che il ciclismo, e non solo, possa concedere a un atleta. Il sorriso sereno e gli occhi lucidi, la figura prosciugata da 21 giorni di gara, quel foglietto tra le mani, il primo ringraziamento ai genitori e alla moglie, l’ultimo a chi lo applaudiva - “Merci France!” - restituiscono alla grandiosa scena madre della premiazione un tocco familiare, sorprendente e sobrio. La normalità di un uomo capace di eccezionali imprese è ciò che lo avvicina alla gente. Che lo fa amare. Non un supereroe, semplicemente un’eccellenza italiana. Come vorremmo e potremmo essere. Nibali, uno di noi. Oggi, in sella a una bici, il migliore di noi. Tutto qui, anche se non è poco.
Non conviene affollare la vittoria di Vincenzo con enfasi eccessive. Vediamo di non sederci tutti sul suo manubrio. Evitiamo di farne un simbolo. Lasciamolo entrare senza strepiti, ma anche senza timidezza, in una galleria leggendaria. Quella dei Coppi e dei Bartali, dei Merckx e dei Gimondi, che infatti sulle nostre pagine gli dà il benvenuto. Celebriamo piuttosto il modo in cui - sedici anni dopo Pantani - ha domato, o meglio stritolato, il grande serpente giallo. Un campione maturo e completo che ha vinto su tutti i terreni utilizzando in modo straordinariamente equilibrato i tre elementi nobili di cui è fatta la materia del ciclismo: fuoco, terra e aria. Cuore, muscoli e cervello.
Ha dato spettacolo sull’infernale pavé di Arenberg. Ha dominato in salita e in discesa, i suoi terreni favoriti, dalle Alpi ai Pirenei. Ha mostrato sorprendente maturità a cronometro. Ha guidato i compagni, a cui va sostanziosa parte del merito, con autorevolezza e freddezza. Si è giovato della guida esperta di Martinelli (e del mitico Slongo) con umiltà ma senza castrare l’inventiva e l’imprevedibilità in corsa che fanno di lui un campione moderno di razza antica. Nel suo bel commento di ieri, Pier Bergonzi rintracciava proprio nella «piccola Roubaix» il momento chiave. Sicuramente è stato il trampolino del successo. Ma non sottovaluterei il valore psicologico di quei due secondi e della maglia gialla strappati sul traguardo di Sheffield: un tracciato da grande classica, un ultimo chilometro a tutta manetta, una dichiarazione d’intenti. Quasi un’intimidazione. E ha funzionato.
Ora i rosiconi diranno che ha vinto perché i suoi grandi avversari sono caduti. Ma non è colpa di Vincenzo se lui sa guidare la bicicletta come un funambolo mentre Froome ci sta sopra come un ferro da stiro. Anche Contador, che pure è un vero fuoriclasse, si è distratto un attimo e ha pagato carissimo. Vincenzo no: in novanta ore di corsa effettiva non ha avuto un secondo di amnesia. E pure questo fa grande un corridore. Certo, sulle salite, tra i due sarebbe stata una sfida-spettacolo. Peccato, ci è mancata. Ma non scordiamo chi stava davanti in classifica: recuperare oltre due minuti a questo Nibali sarebbe stata impresa assai complicata anche per lo spagnolo.
Altri rosiconi hanno bombardato il vincitore con la consueta sassaiola di insinuazioni sul doping. Il ciclismo si è fatto troppo male da solo perché la Gazzetta possa distribuire certificati di verginità. Mi limito a osservare che i tempi e le altre diavolerie specialistiche (Vam e watt) di Nibali in salita sono umani: a Hautacam, Bjarne Riis detto Monsieur Soixante (sessanta di ematocrito) gli avrebbe rifilato tre minuti. In realtà, il nostro è tra i campioni che hanno registrato negli anni un’ascesa regolare e riconoscibile. Prima del trionfo parigino, ha vinto una Vuelta e un Giro. Il suo passaporto biologico è impeccabile. Con coraggio, ha puntato tutta la stagione sul Tour svolgendo una durissima preparazione in quota. Per come lo conosco, è un ragazzo che ama le salite e odia le scorciatoie. Lo ricordo, bianco come un cencio e semiassiderato, all’arrivo nella tormenta sulle Tre Cime, l’anno scorso. Hai vinto il Giro più bello dell’ultimo decennio, gli dissi. “E voi mi avete preparato il più freddo”, rispose con un sorriso tirato. Chi te la fa fare, Vince’? “Mi diverto ad andare in bici. E’ la cosa che so far meglio”. Lassù, nel gelo delle Dolomiti, ho visto un uomo autentico, consapevole della sua forza e delle sue fragilità. No, non mi sorprende ritrovarlo oggi in cima al mondo.