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 2014  luglio 28 Lunedì calendario

HO FATTO IL TEST DEL DNA, TI CAMBIA LA VITA

«Perché sono ancora così pochi i medici che si fanno analizzare il Dna?», si chiede George Church, professore a Harvard, in un editoriale su Nature . «E se cominciassi col farlo io?», mi chiedo. «E se poi scopro che potrei ammalarmi di Alzheimer o di Parkinson o di certi tumori cosa faccio?». Comunque «meglio sapere», penso tra me e me dopo aver valutato pro e contro? Ne parlo in famiglia, mia moglie è un po’ preoccupata, i ragazzi no, uno mi dice: «Sempre meglio sapere»; un altro: «Che bello lo farei anch’io se fosse possibile»; un’altra: «Papà va bene, fai, ma se ci fossero cattive notizie non le voglio sapere».
Ma è davvero così semplice farsi analizzare il Dna? Chi lo fa? E chi poi interpreta i dati? E quanto sono affidabili queste interpretazioni? E quanto tempo ci vuole? E i costi? Domande semplici a cui devo ammettere di non saper rispondere.
Il primo a farsi analizzare il Dna è stato Francis Collins, proprio lui il 26 giugno del 2000 annunciò al mondo con Venter e Clinton che la sequenza del genoma umano era stata completata. Quando ha deciso di farsi analizzare il Dna, Francis Collins grandi preoccupazioni non ne aveva dato che i suoi genitori sono morti tutti e due a 98 anni. Quello che ha fatto Collins l’hanno fatto ormai migliaia di americani, anche perché farsi sequenziare il genoma oggi costa 150 volte meno di allora.
In Italia l’analisi del Dna si può fare solo se c’è un dottore che attesti che c’è una ragione per farlo. Benissimo, sento il mio medico ed ecco il primo ostacolo: «Non so, non saprei, non mi è mai successo che qualcuno volesse farsi analizzare il Dna». Parlo con altri tre medici di famiglia, ma nessuno ha la minima idea di quello che si dovrebbe fare. Così faccio da solo.
Compagnie che analizzano il Dna da noi ce n’è almeno quattro: Genomnia a Lainate, Iga Technology Services a Udine, Bmr Genomics a Padova e Personal Genomics a Verona. Di solito si analizzano solo certe regioni del Dna (quelle che si associano a malattie che si sono già manifestate in famiglia), ma uno potrebbe anche farsi sequenziare l’intero genoma. Scelgo questa seconda strada e mi rivolgo a Personal Genomics a Verona. Il campione di sangue me lo prelevano il 3 aprile, proprio il giorno del mio compleanno. Il Dna lo estraggono i miei colleghi del Mario Negri. A metà maggio Personal Genomics mi comunica che il sequenziamento è stato completato, si tratta di interpretare i risultati. Si fa a Verona e non solo; Personal Genomics si avvale della collaborazione di un gruppo belga (Gentle) e di Genophen in California. Prima di sbilanciarsi, tutti vogliono conoscere la mia storia e se sono stato malato e di cosa, e poi vogliono informazioni sulla mia famiglia e sulle malattie dei miei genitori. Per Genophen si tratta addirittura di rispondere a un questionario di 15 pagine con cui ti chiedono anche abitudini alimentari, fumo, attività fisica e poi come e quanto dormi e se sei nervoso almeno qualche volta e perché e cosa fai quando sei nervoso e tanto d’altro.
Ai primi di giugno arriva per email il «verdetto» di Personal Genomics e Gentle. Trovano 172 mila e 115 varianti nel mio genoma; è quello che mi rende diverso da 1.000 altre persone apparentemente sane che rappresentano la normalità. Quindicimila e 459 di queste varianti sono piuttosto rare, le condivide con me solo il 5 per cento della popolazione. Di queste, 83 potrebbero darmi qualche problema più in teoria che in pratica. Dieci di queste varianti però si trovano in geni che hanno a che fare con certe malattie. Nel caso mio c’è una variante rara in un certo gene che in certi studi sembra essere associata a rischio aumentato di avere un infarto del cuore. Ci sono però almeno tre altri studi: uno fatto in Spagna, uno in Cina e uno a Milano che non trovano nessun rapporto fra la variante rara del mio gene e malattie del cuore.
Così sono al punto di prima. So di avere una alterazione rara in un gene che espone al rischio di soffrire di cuore ma la cosa non è affatto sicura. Ho un’altra variante in eterozigosi. È nel gene Hfe che forma una proteina che regola il metabolismo del ferro. Se la proteina non funziona, il ferro si accumula nel fegato e questo dà origine a una malattia che i medici chiamano emocromatosi; non è il mio caso. Una curiosità: mio padre che pure è stato bene fin quasi a 90 aveva un’alterazione del metabolismo del ferro che i medici non sapevano spiegare, era quasi certamente quel gene.
Intanto quelli di Genophen vanno avanti. La loro interpretazione del mio Dna si conclude entro la fine di giugno. «Risultato?» chiedo per email. «Calma – mi dicono – prima dobbiamo organizzare una videoconferenza, parlerai con il nostro capo, Mehrdad Rezaee». Fissiamo per il 18 luglio. Il collegamento dura più di un’ora. Il dottor Rezaee ci tiene a premettere che il profilo di rischio per le malattie comuni dipende più dalla storia familiare, dalle abitudini di vita e dall’alimentazione che dal Dna. Giusto, ma a me interessa il Dna in questo momento. Ci concentriamo sul rischio cardiovascolare; Genophen trova nel mio Dna due anomalie che si associano a un rischio aumentato di malattia coronarica. Comincio a preoccuparmi, «con quella Gentle sarebbero tre». Ma la tabella successiva fa vedere che il mio rischio di infarto è inferiore alla media e potrebbe scendere ancora mi dicono. Non capisco, «e i tre geni “cattivi”»? Rezaee mi fa vedere un’altra figura, ci sono tutti i miei cromosomi e sopra ciascuno di loro diverse righette: rosse, verdi e azzurre, sono i geni che hanno a che fare con il rischio coronarico. A preoccupare sono i due rossi, ma ce ne sono nove verdi che invece proteggono dal rischio d’infarto. Il dottor Rezaee prima di appassionarsi di genetica era un cardiologo interventista. Gli chiedo se pensa che dovrei fare una coronarografia. Si mette a ridere. «Don’t go even close to a cardiologist» mi dice, insomma stai alla larga dai cardiologi.
Rezaee va avanti con una quantità impressionante di tabelle e figure che insieme fanno il mio profilo genetico e non solo. Vediamo: per l’aneurisma dell’aorta, per il cancro del colon e l’Alzheimer, per esempio, tenuto conto dei geni ma anche di esami di laboratorio e abitudini di vita, rischio meno della maggior parte delle persone ma rischio di più di avere i calcoli alla colecisti (proprio come mia mamma che mi ha trasmesso almeno due geni che favoriscono la formazione di calcoli) e l’osteoartrite sempre per ragioni genetiche. In teoria il mio profilo genetico mi predispone alla degenerazione maculare, una causa abbastanza comune di calo della vista , ma per adesso ci vedo benissimo.
Sequenziare la parte codificante del mio genoma è costato 1.000 euro, ma per tutto quello che serve per interpretare i dati si arriva come minimo a 3.000 euro; costi proibitivi per la gente che nei prossimi anni però scenderanno e anche di molto. Allora dovremmo farla tutti l’analisi del Dna? Non è detto. Sapere che un ragazzo potrà avere problemi di dipendenza dall’alcol o da altre droghe può servire a proteggerlo, ma potrebbe anche essere che la predisposizione genetica diventi un alibi per non smettere.
Lo studio del Dna cambierà quasi certamente il modo di fare medicina, le informazioni che ho io adesso sul mio iPad relativamente al mio Dna ciascun medico potrebbe averle nel suo computer per ciascuno dei suoi assistiti: «Signor Rossi lei sta benissimo per adesso, ma il suo profilo genetico evidenzia un rischio aumentato di tumore della prostata, si faccia vedere da un urologo almeno una volta all’anno». Questo però succederà solo quando i risultati dell’analisi del Dna saranno completamente affidabili. Per ora non è così. È il caso di John aveva un’alterazione del ritmo del cuore per cui gli hanno impiantato un pacemaker; oggi il suo cuore funziona grazie agli impulsi di quel piccolo apparecchio. A John quattro compagnie diverse hanno fatto sapere che in base al Dna rischia meno degli altri di avere disturbi del ritmo del cuore, proprio il contrario di quello che invece gli è successo. Lo studio del genoma ci ha insegnato invece a rivalutare la storia familiare. E potrebbe contribuire moltissimo a prevenire le malattie.
Per me è già così, un po’ almeno. Da quando ho un obiettivo da raggiungere – per ridurre anche di più il rischio di ammalarmi di cuore – cammino quasi mezz’ora al giorno che è certo più di prima. Per i calcoli serve soprattutto fare un’ecografia ogni tanto, la prima l’ho già fatta. E poi calcoli della colecisti e degenerazione maculare si prevengono tutti e due con pochi grassi, molta verdura e molta frutta. Ed è proprio quello che sto facendo; coi grassi ero già abbastanza attento (non con le uova però) ma ho sempre mangiato pochissima frutta. Qualcosa che non avrei mai immaginato è che conoscere i segreti del mio Dna fosse uno stimolo a cambiare le mie abitudini; è stato così, per adesso. «Siamo preparati – si chiede alla fine del suo libro The Language of Life – a sapere quello che c’è da sapere del nostro Dna? E di quello dei nostri figli? E di ciascun neonato al momento del parto?». Forse no. E forse non è nemmeno così importante.