Marco Imarisio, Corriere della Sera 28/7/2014, 28 luglio 2014
L’IMPRESA, DAL DISEGNO SUL TOVAGLIOLO ALLA PARTITA A GOLF SUL PONTE DEL RELITTO
Nell’ultimo viaggio della Costa Concordia contava più la partenza dell’arrivo. L’attracco del più grande relitto del mondo all’interno della diga foranea del porto di Genova è accompagnato da un comitato d’accoglienza pubblico e dovuto, in fondo si tratta della miglior fine possibile di una storia cominciata come peggio non si poteva immaginare. La manovra di ieri e i quattro giorni di navigazione avevano un esito scontato oltre misura. Il margine di sicurezza era ampio, quell’enorme catafalco poteva sopportare uno «stato di mare limite» che prevedeva onde alte cinque metri, improbabili anche in questa strana estate. Mentre telecamere e macchine fotografiche cercavano di riprendere cosa accadeva sul relitto in navigazione, Nick Sloane, il master sudafricano diventato volto e spirito di questa operazione, giocava a golf usando la pozza del comignolo come buca. La fine era nota. Non c’era tensione, non ci sarebbero state brutte sorprese.
Le emozioni vanno cercate nei ricordi di questi due anni e tre mesi. «Mario, ci sarebbe questa opportunità...». L’ingegner Scaglioni ricorda bene la prima telefonata arrivata da Silvio Bartolotti, il presidente della Micoperi, l’azienda di Ravenna che ha nel suo atto fondativo il recupero dei relitti. Era il gennaio del 2012, e dopo il «sì» dall’altro capo del telefono restava un mese di tempo per mettere a punto un progetto. Scaglioni, socio della Spline di Venezia, società specializzata nell’ideazione nel design navale, ci ha messo l’idea dei cassoni alti come palazzi. Si è rivelata meno suggestiva delle palline da ping pong o dell’aria compressa stipate all’interno del relitto, ipotesi presa in considerazione, ma ha dato la spinta e la stabilità necessarie al relitto per stare a galla. «Abbiamo pensato che una carena esterna fosse più controllabile».
Ci sono tutti, sulla banchina del molo di fronte alla diga foranea. Lo spirito di quest’ultima giornata avrebbe dovuto essere quello di una riunione privata tra colleghi, che a cose fatte si concedono una birra con la cravatta allentata. Ognuno con il suo ricordo, ognuno con il compiacimento per un lavoro fatto bene, definizione che potrebbe anche essere riduttiva per un’opera mai tentata prima nell’ingegneria navale. «Il mio problema è sempre stato quello di non sformare la nave e di poterne controllare le reazioni. L’ancoraggio con gli argani mi sembrava troppo rischioso. Meglio tentare qualcosa di nuovo». L’ingegner Tullio Balestra della Tecon di Assago è il titolare dell’idea dei cavi, chiamiamoli così per semplicità, che hanno permesso la rotazione dello scafo, il cosidetto parbuckling, che per tutti gli addetti ai lavori è stato il momento più delicato. C’è molta Italia, oggi, e non potrebbe essere altrimenti.
Nel flusso dei ricordi collettivi spunta la cena a Santa Margherita ligure con Richard Habib, il patron della Titan, che fece un disegno su un tovagliolo, immaginando però una nave cementiera da affondare sotto la Concordia al posto delle piattaforme, soluzione che avrebbe incontrato qualche legittima resistenza ambientalista. Da allora, nello spazio di poche settimane, ci sono stati molti altri disegni. Il più importante è quello fatto da un ingegnere di Ravenna, Giovanni Ceccarelli, titolare dell’omonima ditta di yacht design, su un taccuino, in viaggio su un treno da Bologna fermo nel nulla a causa di una abbondante nevicata. Su quello schizzo c’era più di una nave avvolta da ganci, fili e torrette. «C’era l’azzardo del raddrizzamento» riconosce oggi quello che i suoi colleghi italiani considerano come il padre putativo del progetto. «Il parbuckling è una vecchia tecnica, ma certe volte nulla è più nuovo dell’usato...».
In questa storia collettiva c’era da superare un esame. Nell’aprile del 2102 il compito dell’alunno davanti ai professori del committente Carnival e delle assicurazione londinesi chiamate a metterci i soldi toccò al milanese Sergio Girotto, responsabile del progetto per conto di Micoperi, il versante italiano del nascituro consorzio, una delle poche aziende ad avere i recuperi marittimi nella ragione sociale, nata nel 1946, quando in Italia c’era purtroppo molto da recuperare. «Noi eravamo gli outsider, guardati anche con un certo sospetto nell’ambiente, per via di un progetto avveniristico che l’ambiente dei recuperi navali faticava ad accettare». L’aiuto che non ti aspetti arrivò proprio dalla Carnival. I loro esaminatori non dissero nulla. «Ma il loro apprezzamento tecnico era evidente». Nel maggio 2012 venne assegnato il contratto.
«Ci vorrà molto tempo prima che il mondo capisca quanto complessa e ben gestita sia stata questa faccenda». I titoli di coda sono per lui, il signor Nick, una di quelle persone di cui piacerebbe scrivere la biografia. «Io sono la parte operativa, ho eseguito quel che i miei colleghi italiani avevano messo sulla carta. Io sono un tecnico, loro dei visionari». C’è molta generosità nelle parole di quest’uomo che si appresta a tornare a casa dopo un’assenza durata due anni e tre mesi. Sua figlia si aggrappa al braccio, vuole papà tutto per sé. «All’inizio ero spaventato, non mi ero mai trovato dentro un’impresa del genere. Poi ho pensato che si vive per la sfida. Bene, questa era bella grossa». Se è finita con una partita a golf sulla Costa Concordia, il merito è dei suoi colleghi italiani, che adesso si salutano come fossero alla fine di un convegno. Per il pathos bisogna rivolgersi altrove. Cosa volete farci, sono ingegneri.
Marco Imarisio