Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 26/7/2014, 26 luglio 2014
NELLA NOTTE DI TARANTO IL GIGANTE DORME
Il gigante si è addormentato. Di notte, qui a Taranto, si intravede a stento il profilo dell’acciaieria. Poche luci ne definiscono il perimetro. L’esistenza dei camini degli altoforni è provata dai neon rossi collocati sulle loro cime. Sennò, il buio coprirebbe ogni cosa. A due anni esatti dagli arresti e dal sequestro dell’area a caldo, il maggior organismo industriale italiano – eredità dell’economia pubblica, nella forma delle privatizzazioni di metà anni Novanta – ha ridotto le sue funzioni vitali al minimo.
Le enormi lingue di fuoco non fendono più l’aria serale. I fari artificiali non illuminano a giorno le cokerie. Lo spettacolo vagamente faustiano dell’industrialismo novecentesco, qui declinato per quarant’anni nella forma estrema della siderurgia, ha ceduto il passo a una imperscrutabile inerzia.
Il bioritmo dell’Ilva è rallentato il più possibile. Mercoledì 16 luglio l’impianto ha prodotto la quantità di acciaio minore della sua storia: in quella giornata ha realizzato poco più di 10mila tonnellate. Nel 2013 – durante la gestione del Commissario Enrico Bondi, che è stato sostituito con Piero Gnudi il 6 giugno dal Governo Renzi – la media è stata di 16,3mila tonnellate al giorno. Bondi, che era stato nominato il 4 giugno 2013 dall’esecutivo Letta, aveva gradualmente incrementato nei primi cinque mesi del 2014 la produzione portandola, a fine maggio, verso una media giornaliera di 19mila tonnellate. La produzione effettiva viaggia adesso a un ritmo compreso fra le 10mila e le 14mila tonnellate medie al giorno. Nella delicata fisiologia industriale, perché il sonno non si tramuti prima in coma e poi in estinzione, una equazione elementare non va trascurata. L’equilibrio è a quota 22mila tonnellate. A 22mila tonnellate di acciaio medie prodotte al giorno l’Ilva è a break-even: né perde né guadagna soldi. Con l’effetto moltiplicatore delle grandi fabbriche e dei grandi volumi industriali, se riesci a collocarti al di sopra di questa asticella, allora guadagni molto. Per fare un esempio: nel 2007, ultimo anno prima della crisi, il record assoluto di una media quotidiana di 27,3 mila tonnellate consentì all’Ilva di beneficiare di un margine operativo lordo di poco più di un miliardo di euro. Allo stesso modo, se sei costretto a rimanere al di sotto di questa soglia, rischi di perdere a bocca di barile.
Enrico Bondi e Piero Gnudi, Mario Monti e Enrico Letta, Matteo Renzi, Corrado Clini e Andrea Orlando, Gian Luca Galletti, Corrado Passera e Flavio Zanonato, Federica Guidi, Emilio e Fabio Riva, Franco Sebastio e Patrizia Todisco. Nell’astratta e inflessibile durezza dei fenomeni economici, tutti i nomi dei protagonisti degli ultimi due anni – con i loro meriti e i loro limiti, le loro responsabilità e le loro colpe - scompaiono di fronte a questo semplice numero: 22mila. Ogni mille tonnellate in meno fatte al giorno provoca in proiezione una perdita mensile di 17 milioni di euro. Certo, una perdita puramente "manifatturiera" – circoscritta al perimetro prettamente industriale dell’Ilva - che si può limitare e temperare tagliando, tagliando, tagliando. Ma è esattamente questa l’entità della pallina da tennis in bocca all’Ilva commissariata, che le impedisce di respirare finanziariamente e che rischia di trasformare il suo attuale sonno irrequieto in una rantolante agonia.
Il presidente del Consiglio Renzi aveva promesso, sull’Ilva, un cambio di passo. Bisognerà verificare la destinazione finale di questo nuovo stile di camminata. Ma un cambio di passo, senz’altro, c’è stato. La gestione Bondi ha avuto – rispetto ai diciassette anni di piena proprietà Riva – un tratto di continuità: una impostazione molto focalizzata sull’hardware industriale, concettualmente non dissimile da quella della famiglia lombarda, ma ricalibrata sulle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale. Bondi – tre giorni in acciaieria a Taranto e due negli uffici di Viale Certosa a Milano – era un chimico che preferiva circondarsi di ingegneri. Senza entrare nel merito della realizzabilità o meno di una conversione alla tecnologia del preridotto rifiutata dall’attuale Governo e dalla comunità siderurgica italiana, anche questa opzione si iscriveva in uno scenario delimitato dalla tecnologia e dalla produzione. Alle otto del mattino riunione con gli ingegneri di produzione. Con Gnudi, invece, l’impostazione è diversa. Per lo stesso gigante malato, è stata cambiata completamente la specializzazione del medico. Gnudi è un grande commercialista. È capace di muoversi fra la politica e l’economia fin dai tempi in cui, nel 1994, aveva la delega all’Iri per le privatizzazioni. È dotato di un pacchetto di relazioni ampio e trasversale. Gestisce il problema secondo le sue attitudini. E opera con un mandato differente. Il Governo Letta aveva assegnato a Bondi i poteri reali di un capoazienda "di fabbrica", che dal mandato commissariale estendeva la sua mano su tutta l’impresa, partendo dalla componente più manifatturiera. Gnudi, invece, è spesso negli uffici dell’Ilva di Milano e di Roma. Parla con le banche. Delega ad altri la quotidianità produttiva, in un contesto segnato a Taranto dallo svuotamento delle competenze manageriali iniziato con l’azione giudiziaria. Tanto che, proprio in questi giorni, sta realizzando un turn-around della prima linea di impresa e di "acciaieria", non soltanto con promozioni interne ma anche con innesti selezionati dal mercato della siderurgia italiana. Il tutto per trovare un equilibrio – giuridico e azionario, gestionale e finanziario – fra la vecchia Ilva dei Riva e la nuova Ilva che verrà.
I franco-indiani di Arcelor Mittal, a Taranto, sono già venuti due volte. «Certo – osserva Fausto Durante, responsabile per l’Europa della Cgil – bisognerebbe vedere quale delle due anime che coesistono nel gruppo franco-indiano prevarrebbe. Arcelor aveva una governance concertativa con i sindacati e i lavoratori negli organi di controllo e di indirizzo, molto interessante per un caso come quello di Taranto. Mittal, invece, è durissima con i sindacati e i governi». A Taranto non è ancora venuto nessuno della Arvedi, che fra gli italiani è il più liquido. Completata la due diligence dei franco-indiani (entro fine agosto), in acciaieria dovrebbero entrare i tecnici degli altri gruppi, italiani e stranieri, interessati. «L’auspicio – dice Biagio De Marzo, voce dell’ecologismo non radicale e settario di Taranto e dal 1971 in Italsider – è che, chiunque faccia una offerta nei prossimi mesi, comprenda che questa acciaieria vive soltanto se soddisfa il proprio gigantismo: il ciclo integrale sta in piedi con almeno 8,5 milioni di tonnellate all’anno. Il livello standard minimo raggiunto dai Riva. Una punta che ai tempi delle Partecipazioni Statali fu toccata soltanto per un mese nel 1976. Sappiamo bene che volumi più bassi significherebbe una violenta riduzione del personale». De Marzo è un ingegnere che, fra 1979 e 1981, è stato il responsabile tecnico della parte italiana nella ristrutturazione fatta da Nippon Steel: «Adesso l’Ilva è come un corpo dormiente. Non solo di notte, ma anche di giorno. Nella fabbrica sembra prevalere l’immobilismo. Molti cercano di assumersi le minori responsabilità possibili. Un corpo gigantesco, frutto della maledizione del raddoppio di dimensione voluto dall’Iri fra il 1971 e il 1974, quando nessuno al mondo faceva più impianti così giganteschi. Il risveglio sarebbe amaro, se un ipotetico nuovo azionista decidesse di modificare l’equilibrio interno di questo gigante».
Il downsizing provocherebbe uno scenario complesso, che tutti – dal governo al commissario – vogliono scongiurare. Qui, nella notte di Taranto, il gigante dorme. Intorno a lui, per alcuni la realtà inizia a essere popolata dai fantasmi e dalle paure del cattivo sonno. L’asfissia finanziaria ha preso le forme del contagio sistemico. Roberto Galluzzo, titolare della Tecnogal Service di Brindisi (manutenzione e montaggio in impianti e in officina, un centinaio di addetti, 10 milioni di euro il fatturato ante crisi, ridotto l’anno scorso a sei), non prende nemmeno il fiato mentre snocciolo i suoi numeri: «197mila euro a marzo, 318mila a aprile, 626mila a maggio, 256mila a giugno e 290mila a luglio. Quasi mi vergogno a dirlo: a maggio sono riuscito a pagare solo la metà delle buste paga. A giugno, nulla. I mancati pagamenti dell’Ilva sono diventati un incubo».
Nelle sere di Taranto, mentre il gigante dorme, non sono mai tranquilli nei loro letti gli abitanti di Tamburi, il rione che si trova a ridosso dei parchi minerali. «Non mi capacito – dice Bruno Manghi, sociologo che qui a Taranto ha diretto fra il 1981 e il 1983 la Scuola del Sud della Cisl – come negli ultimi vent’anni non vi sia mai stato in alcuna agenda, nazionale e locale, lo spostamento degli abitanti. In tutto il mondo si fa così. Come fanno a dormire tranquille, le nostre classi dirigenti, senza pensare a questi nostri connazionali?». Dorme il gigante, dorme Tamburi, dorme Taranto, dorme l’Italia.
Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 26/7/2014