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 2014  luglio 27 Domenica calendario

Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale

Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge. In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania – il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas). In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese? Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei. Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti (non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie. Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele. Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche, condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi. E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti, di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo e degli ebrei in Israele e nel mondo. Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo dalla parte opposta. È logicamente insostenibile e politicamente indecente definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967, chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen. Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese, che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie, si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele. Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa. E’ vero che una soluzione politica è estremamente problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del tutto illusoria. Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge. In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania – il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas). In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese? Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei. Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti (non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie. Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele. Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche, condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi. E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti, di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo e degli ebrei in Israele e nel mondo. Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo dalla parte opposta. È logicamente insostenibile e politicamente indecente definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967, chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen. Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese, che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie, si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele. Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa. E’ vero che una soluzione politica è estremamente problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del tutto illusoria. Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge. In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania – il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas). In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese? Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei. Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti (non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie. Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele. Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche, condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi. E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti, di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo e degli ebrei in Israele e nel mondo. Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo dalla parte opposta. È logicamente insostenibile e politicamente indecente definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967, chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen. Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese, che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie, si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele. Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa. E’ vero che una soluzione politica è estremamente problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del tutto illusoria. Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge. In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania – il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas). In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese? Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei. Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti (non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie. Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele. Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche, condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi. E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti, di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo e degli ebrei in Israele e nel mondo. Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo dalla parte opposta. È logicamente insostenibile e politicamente indecente definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967, chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen. Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese, che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie, si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele. Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa. E’ vero che una soluzione politica è estremamente problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del tutto illusoria. pag. 4 di 4