Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 27 Domenica calendario

NEL 1982 ERA UNA SBANDATA

Nel 1983 promessa del pop. Nel 1984 international
star. Nel 1989 scheggia impazzita dello show business. «Non sei nera, non sei più una ragazzina, le radio ti ignorano. Rassègnati », fu la diagnosi dell’industria. «Ma quante volte può finire una carriera?», si chiede Cyndi Lauper, la voce garrula di sempre, più infantile di sempre, come se qualcuno meglio di lei conoscesse la risposta alla domanda che fa vacillare la psiche degli artisti. Ha i capelli appena più in ordine e appena meno multicolor di trent’anni fa, quando l’album She’s So Unusual iniziò la scalata nelle classifiche di tutto il mondo (le avrebbe regalato lo status di evergreen e garantito una discografia cinquanta milioni di copie vendute) grazie a Girls Just Want To Have Fun, tormentone che senza pretenderlo diventò un inno femminista (per l’occasione la Sony ha pubblicato un’edizione speciale , 3-0th Anniversary Celebration). «Fu un periodo meraviglioso, divertente, folle», ricorda, «come tutta la mia vita d’altronde. Ma quell’estate fu particolarmente
pazza».
Sessantun anni, un marito, l’attore David Thornton, un figlio, Declyn, adolescente inquieto, una vita tranquilla nella tenuta upstate New York, un’immagine talmente potente da aver generato una serie interminabile di sister (da Gwen Stefani a Katy Perry), una popolarità a prova di bomba riconfermata dal Dressed to Kill Tour ( insieme a Cher) e dal trionfo a Broadway (premiato con un Grammy) di Kinky Boots, il musical (tratto film inglese Decisamente diversi ) che ha scritto insieme a Harvey Fierstein. «Ma non mi chiami signora, sono la ragazza senza filtro di sempre», dice Cyndi. «Ho vissuto come se non avessi niente da perdere». Era una bambina solitaria, cresciuta in una casa del Queens dove la mamma si faceva in quattro per sopperire all’assenza di un padre che se l’era data a gambe. «La casa era piena di musica, mia nonna ascoltava arie d’opera, Puccini soprattutto. Poi arrivarono i Beatles e la Motown, e la mia vita cambiò
radicalmente. Gli anni Sessanta furono uno straordinario periodo di formazione. Per me Bob Dylan, Joan Baez, Sly and the Family Stone e Jimi Hendrix fanno parte di un unico suono. Non avrei potuto scegliere un decennio migliore per crescere: le lotte per i diritti civili accompagnate da quelle canzoni meravigliose ».
A diciassette anni lasciò casa e famiglia, vagabonda con lo zaino in spalla, hipster e un po’ punk.
Ma soprattutto ingenua. «All’epoca credevo ancora
che un uomo e una donna potessero essere amici e dormire insieme come fratelli », mormora. Mentre lei continuava a sognare il palcoscenico e il principe azzurro, i ragazzi ne approfittavano. «Una volta feci l’autostop e quel tizio si rifiutò di farmi scendere. Cominciò a mettermi le mani addosso. Mi costrinse a praticargli del sesso orale, poi pretese di farlo a me. E alla fine: “Che hai da lamentarti? È stata una cosa reciproca no?», racconta lasciando intendere che con gli uomini fu un disastro dietro l’altro. Il look eccentrico col quale mascherava l’eccessiva timidezza la trasformava in una facile preda agli occhi dei maschi. Per fortuna c’erano le canzoni. «Ci sono artisti che sono nati per cantare, il loro destino è segnato fin dall’infanzia; Elvis, per esempio. Io lo feci perché avevo fallito in tutto il resto». A New York cominciò a muovere i primi passi nel momento più buio e caotico per la metropoli, quando l’Aids mieteva le prime vittime. «Gregory, il mio amico del cuore, si ammalò gravemente, e sarebbe morto nel 1986. Era una situazione spaventosa. Molte persone che lavoravano nel nostro ambiente si ammalarono e morirono una dopo l’altra, e il governo sembrava del tutto indifferente». Cyndi intanto faceva serate con i Blue Angel. «Credevo in quel gruppo, il problema era che non ci credevano gli altri», racconta. «La casa discografica ci disse a chiare lettere che il rockabilly non sarebbe andato da nessuna parte. Ero al settimo cielo quando incidemmo il disco, sprofondai all’inferno quando mi resi conto che sarebbe stato un flop. Ma fu quella delusione a darmi la forza per cominciare a immaginarmi come cantante solista e osare di più».
Fece tesoro delle sue fragilità, della sua esperienza di runaway, di quel look un po’ folle che aveva inventato rovistando tra l’usato dei thrift shop — come Madonna in Cercasi Susan disperatamente, per intenderci. «Quando mi resi conto che Girls Just Want To Have Fun stava diventando un inno femminista provai un’esaltazione nuova. La sensazione fu anche più forte alla vista di tutte quelle donne nel clip che realizzammo subito dopo. Il messaggio era chiaro: ragazze svegliatevi, anche noi donne abbiamo diritto a un’esistenza felice, di qualsiasi razza, diverse, bruttine, sovrappeso». La Mtv generation contribuì non poco a trasformare Cyndi in un idolo; poche settimane e la squinternata ragazza del Queens era la diva di Manhattan e l’irresistibile songstress che tutti aspettavano dai tempi di Carole King. «Quando hai fatto la gavetta che ho fatto io il successo non ti prende alle spalle», riflette. «L’importante è riuscire a pensare con la propria testa, a non svendersi. Sono sempre stata inflessibile su un punto: voglio il controllo creativo di quel che faccio. Anche a costo di sbagliare. E ho sbagliato. Quando imbroccai la strada giusta e pensavo che sarebbe stato per sempre, per esempio. “Qui non c’è niente di garantito”, disse una volta Billy Joel; adesso so perfettamente quel che intendeva».
Il meglio doveva ancora arrivare: una formidabile ballata, Time After Time, che anche l’intrattabile Miles Davis trovò irresistibile (e ne incise una versione). Diventò uno standard a tempo di record, nonostante ci fosse già dal 1947 una canzone dallo stesso titolo, per giunta famosissima. «Ero una ragazzina ignorante, non lo sapevo, anche se l’avevano cantata anche Frank Sinatra, Carmen McRae e i Platters», confessa. «Mentre stavo scrivendo la canzone avevo davanti la guida tv e l’occhio andò su un film del ‘79 con Mary Steenburgen, un’attrice che ho sempre adorato, che si chiamava proprio così. Tentai di cambiare il titolo, ma non riuscivo a separare la melodia da quelle tre parole. Mi arresi, ma non
avrei mai immaginato che Time After Time mi avrebbe messo sul piedistallo delle grandi autrici». Il passo successivo fu la sceneggiatura di un video che ha fatto storia, quello che trasformò la Cyndi randagia, vagabonda e… senza filtro in una maschera clownesca, malinconica e romanticissima, icona pop e icona gay. «Era in sintonia con lo spirito del brano, la storia di una ragazza ossessionata da sua madre, così pensammo di coinvolgere mamma nel video, insieme alle mie zie Grace, May and Helen». Time After Time è, ora come allora, il prototipo della pop song perfetta. Ma quando si trova a elencarne gli ingredienti, Cyndi va in confusione. «Devi solo fare in modo che sia una melodia che resta incollato nella memoria; deve essere semplice, facile e alla portata di tutti. Onesta. Che venga dal cuore, che sia legato alle tue esperienze. Non conosco altro ingrediente per sedurre l’ascoltatore se non una grande dose di umanità, l’ho imparato dai Beatles. Ci sono compositori che sostengono di avere in tasca la formula magica: buona fortuna. Le canzoni scritte a tavolino per diventare successi non durano mai nel tempo. Le occasioni migliori capitano quando meno te lo aspetti, tra gli up and down della carriera. Ero delusa e amareggiata per l’insuccesso dell’album Bring Ya To The Brink (2008). Mi ero rintanata a fare la casalinga per smaltire la delusione, come faccio sempre quando non ne posso più di questo mestiere. Per farla breve, stavo lavando i piatti, squillò il telefono e Harvey Fierstein mi propose di scrivere le musiche per uno spettacolo di Broadway. E così sono salita a bordo ». La voce diventa un soffio: «Niente è facile nel nostro mestiere. Soprattutto se vuoi aver successo alle tue condizioni. Ma al di là delle soddisfazioni professionali sa qual è l’impresa più ardua? Vivere una vita felice. Guardiamo alla storia del pop: tanto successo, poca allegria. Come se noi entertainer fossimo accomunati da un triste destino: condannati a dar gioia agli altri e ricavarne solo dolore». Send in the clowns.