Giorgio Vasta, la Repubblica 27/07/2014, 27 luglio 2014
GIORGIO VASTA
PIAZZA
Affari a Zingonia, via Traversi a Quarto Oggiaro, viale della Stazione a Gattinara oppure la centrale termoelettrica di San Giovanni Valdarno, un camping di Lido Cavallino e una casa di riposo a Mombaruzzo: se si volesse descrivere un’identità nazionale attraverso i luoghi si opporrebbe molta resistenza all’ipotesi di individuare nei centri appena citati, e in questa tipologia di costruzioni, qualcosa di utile. Perché l’immagine nazionale si compone connettendo il Colosseo alla Torre di Pisa, il Maschio Angioino alla Mole. Eppure c’è stato un tempo — tra la fine degli anni ‘50 e i ‘70 — in cui tutt’intorno al Monumento che unifica (e semplifica) la Memoria c’era una corolla di luoghi ulteriori, minimi e irrilevanti, periferie che, desiderando almeno per una volta percepirsi come centro, presero a comparire esattamente in quei rettangoli di cartoncino in cui fino ad allora figuravano solo gli emblemi dell’Arte e della Storia. Ebbero vita breve: se la cartolina come consuetudine sociale è oggi ormai prossima all’estinzione, di questa cartolina dell’insignificante si sono perse da tempo le tracce. Vale la pena ricostruire le circostanze in cui divenne possibile concepire come soggetto memorabile un comunissimo incrocio cittadino circondato da condomìni appena nati, gli autogrill Pavesi sospesi a ponte sulle autostrade, fieri nel loro design tra la pagoda e l’astronave, l’edilizia popolare anodina e funzionale del Piano Ina o lo stabilimento siderurgico Oscar Sinigaglia
di Genova (sul retro, inquietante, la scritta “Pensandoti caramente”). Durante il boom, nelle comunità che vivono in paesini o nei quartieri operai nasce il desiderio di veder rappresentato il proprio spazio minuscolo nello stesso modo in cui erano rappresentati quelli maiuscoli. A venire orgogliosamente rivendicato è lo splendore del prosaico, lo sfavillio dell’opaco. Un determinato luogo — è il principio sottinteso — ha valore semplicemente perché è dove abitiamo: perché è il nostro luogo. E allora, mentre il calcestruzzo prende il posto del marmo e l’amianto quello del travertino, una moltiplicazione di vedutine di Bresso comincia a esistere accanto a (se non contro) San Pietro e Palazzo Vecchio: l’ordinario come meraviglia. A tutto ciò si aggiunge l’esigenza promozionale. Tirando a poco prezzo alcune migliaia di copie presso una tipografia di quartiere, per un esercente era possibile far circolare una veduta di viale al Mare di Lido di Campomarino — la gente seduta ai tavolini sotto l’insegna Bar Maria Tabacchi (gli albori del product placement) — oppure immortalare l’istante in cui il portiere dell’Hotel Madonia Lido Terrasini registra l’ospite appena arrivato, l’immagine talmente virata verso il miele da far pensare all’intervento di un professionista. E in effetti, accanto al fotografo su commissione si affermò la figura del cromista, che ritoccava lo scatto saturandolo, aggiungendo nuvole, mitizzando i colori. Puro doping fotografico.
Il punto di non ritorno dell’impulso identitario all’origine del fenomeno coincide con gli interventi a penna direttamente sulle cartoline, quando per esempio una freccia indica un balconcino (casa nostra, viene precisato con soddisfazione) o un tratto di Bic collega la sagoma di un ragazzino in mezzo alla strada alla scritta “Sono proprio io”. È il desiderio di esserci, di abitare lo spazio (e con lo spazio il tempo), qualsiasi esso sia: una geolocalizzazione estrema, emotiva e inconfutabile, senza Gps.