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 2014  luglio 27 Domenica calendario

NEW YORK

La front door ( la porta principale) è per i ricchi broker di Wall Street, la back door — quella seminascosta, nel retro del palazzo o, qualche volta, in una via senza uscita — è per chi fatica a pagare l’affitto a fine mese. Il grande palazzo della Extell Development Company in costruzione nell’Upper West Side (al numero 40 di Riverside) prevede lungo i suoi trentatré piani degli appartamenti di gran lusso, ma questa settimana il board ha approvato la costruzione di una back door. Con una motivazione (presa dopo lunghe discussioni): nel palazzo ci saranno anche 55 piccoli appartamenti, destinati ai «low-income residents », le persone che guadagnano
poco.
New York come Los Angeles, come Londra o le altre grandi metropoli dove ricchi e poveri, per varie coincidenze, vivono fianco a fianco. E nel mondo dell’1 per cento contro il 99 i primi non vogliono spartire la stessa porta d’ingresso con gli altri. Sono le poor doors , così vengono chiamate da quando il dibattito e le polemiche sono esplose a New York. Tra vicini di casa, su Internet o nei giornali troviamo anche diverse e colorite denominazioni: «service entrance», «debtor gate», «the 99 percent door».
Un editoriale del Boston Globe affronta l’argomento di petto. «Le cosiddette poor doors potrebbero essere giustificabili se ci fossero due palazzi distinti, ma quelli di cui stiamo parlando sono edifici unici e che avranno lo stesso indirizzo. Ironicamente il tema della campagna elettorale del sindaco di New York Bill de
Blasio era “A Tale of Two Cities” (il racconto di due città), quella dei ricchi e quella dei poveri. Ora la sua amministrazione ha approvato il piano del gruppo Extell ».
Creare le poor door a New York City sembra quasi uno schiaffo alla storia di questa metropoli. Soprattutto uno schiaffo a quell’Inclusionary Housing Program che dagli anni ‘80 ha promosso l’integrazione economica nelle aree un tempo povere e diventate nuove mete dei ricchi grazie ai nuovi lussuosi building (la cosiddetta gentrification ). Con un ‘bonus’ alle società edilizie per costruire più piani del previsto in
cambio della creazione (o del mantenimento) nel palazzo di appartamenti a basso costo per i meno abbienti. L’ufficio del sindaco (de Blasio è ancora in Italia) fa sapere che l’amministrazione comunale farà tutto il possibile per eliminare le poor doors dalla Big Apple. Almeno quelle future, visto che con quelle già costruite — per le quali la “colpa” viene scaricata sul vecchio sindaco Bloomberg e alla sua leggina del 2009 — non si può più fare nulla. Quanto al palazzo in costruzione su Riverside (affaccio sul parco e sull’Hudson per i ricchi, retrobottega per gli appartamenti low cost) gli uomini della staff di de Blasio
allargano le braccia: «Il progetto ha avuto la luce verde dalla passata amministrazione. Per il futuro cambieremo le cose in modo che riflettano i nostri valori e le nostre priorità».
Il problema è esploso anche a Londra. Lo racconta il Guardian citando il nuovo progetto edilizio di appartamenti di lusso su One Commercial Street o le aree della metropoli dove il boom delle case (e i prezzi) sembra inarrestabile. E dove oltre all’ingresso di servizio per i più poveri l’area “segregata”
riguarda anche spazi comuni come quello per la spazzatura o per tenere le biciclette.
COL SENNO DI POI ,
nessun fenomeno di questo tipo sorprendeva di Philip, perché ti accorgevi delle sue brillanti doti intuitive nell’istante stesso in cui ne facevi la conoscenza. E così pure era per la sua intelligenza. Molti attori simulano intelligenza, ma Philip era intelligente sul serio: era un eclettico brillante, raffinato, e aveva un intelletto che ti colpiva come la luce di un paio di fari e ti avviluppava appena ti afferrava la mano, ti circondava il collo con il suo braccione e si accostava con la sua guancia alla tua; o, se era dell’umore giusto, ti avvinghiava stringendoti a sé, come un grosso scolaro tracagnotto, e poi restava lì in piedi
a illuminarti, calcolando l’effetto prodotto.
Philip faceva vivaci bilanci di ogni cosa, di continuo. Era un’occupazione dolente ed estenuante, e alla fine deve essere stata la sua rovina. Il mondo era troppo sfolgorante perché lui lo potesse tollerare. Doveva strizzare gli occhi o esserne abbagliato a morte. Come Chatterton, andò sette volte sulla Luna rispetto all’unica vostra, e ogni volta che decollava non eri mai sicuro che sarebbe tornato indietro. Credo che qualcuno disse la stessa cosa del poeta tedesco Hölderlin: ogniqualvolta usciva da una stanza, temevi di non rivederlo più. Se quanto sto dicendo può sembrare un’opinione scontata, a posteriori, dopo quello che è successo, sappiate che non è così. Philip si distruggeva davanti ai tuoi
stessi occhi. Nessuno riusciva a vivere ai suoi ritmi e a rimanere in carreggiata, e nei suoi eccessi di straordinaria confidenza aveva bisogno che tu lo sapessi.
Nessun attore — non Richard Burton, non Burt Lancaster, e neppure Alec Guinness — mi ha mai colpito quanto Philip quando ci siamo conosciuti: mi ha accolto come se da tutta la sua vita non avesse fatto altro che aspettare di conoscermi, e suppongo che accogliesse così chiunque. Io, invece, effettivamente aspettavo da molto tempo di conoscere Philip. Ritenevo che il suo Capote fosse la migliore performance in assoluto che avessi visto sullo schermo. Non ho osato dirglielo, però, perché con gli attori c’è sempre il rischio che quando dici loro quanto sono stati bravi nove anni prima ti possano chiedere che cosa c’è che non va nel loro modo di recitare da nove anni a questa parte.
Gli ho detto però che era l’unico attore americano che conoscevo in grado di interpretare il mio personaggio di George Smiley, ruolo in un primo tempo esaltato da Alec Guinness nell’adattamento televisivo per la Bbc de La talpa , e in tempi più recenti da Gary Oldman in un altro adattamento per il grande schermo. Ma all’epoca, da fedele britannico, rivendicavo Gary Oldman come nostro.
Forse ricordavo anche che, al pari di
Guinness, sullo schermo Philip non riusciva a interpretare granché bene un amante, ma per fortuna nel nostro film non c’era di che preoccuparsi. Se Philip doveva prendere nelle proprie braccia una donna, non arrossivi e non distoglievi lo sguardo come facevi con Guinness, ma non potevi fare a meno di avere la sensazione che, in qualche modo, lui lo stesse facendo per te, più che per se stesso.
I nostri registi hanno discusso a lungo per decidere se dovessero riprendere Philip a letto con una donna, ed è interessante sapere che quando alla fine hanno proposto davvero una scena del genere, sono stati entrambi i partner a defilarsi. Soltanto quando accanto a lui è comparsa la splendida attrice Nina Hoss i registi si sono resi conto di assistere al piccolo miracolo di un romantico fallimento. Nella sua parte, rimpolpata in fretta e furia, Nina Hoss è l’adorante collega di lavoro di Philip, la sua sostenitrice, la sua solida spalla. E lui le spezza il cuore.
A Philip quella parte andava benissimo: la sua interpretazione di Günther Bachmann, un agente dell’intelligence tedesca di mezza età in condizioni assai precarie, non prevedeva di includere l’amore o niente del genere. Philip aveva preso quella decisione fin dall’inizio e per poterlo rinfacciare all’occasione si portava sempre appresso una copia in formato tascabile del mio romanzo, molto sgualcita dall’uso — e quale scrittore potrebbe chiedere di meglio? — , per sventolarla sotto il naso di chiunque avesse l’idea di aggiungere un po’ di pepe alla storia. Il film A Most
Wanted Man, nel quale recitano anche Rachel McAdams e Willem Dafoe, sta per uscire nei cinema, anche da voi, quindi iniziate a mettere da parte i soldi per il biglietto. È stato girato quasi int era mente ad Amla
burgo e Berlino, e del cast, in ruoli relativamente di secondo piano, fanno parte anche alcuni degli attori tedeschi più famosi: non solo la sublime Nina Hoss, (interprete di We Are the Night , Barbara , e così via), ma anche Daniel Brühl (che ha recitato in Rush, Good Bye Lenin! e in altre pellicole).
Nel romanzo, il mio personaggio di Bachmann è un agente segreto prossimo alla rovina. Beh, Philip sa interpretarlo alla perfezione. È stato riportato in tutta fretta a casa da Beirut dopo aver perso la sua preziosa rete di informatori per l’incompetenza, o qualcosa di peggio ancora, della Cia. È stato spedito ad Amburgo, a raccogliere informazioni nella città che ospitò i cospiratori dell’11 settembre. La divisione dell’intelligence locale, e molti dei suoi abitanti, vivono portandosi ancora dietro quell’imbarazzo.
La missione che Bachmann si è dato è ripianare le cose: non con squadre di sequestratori, torture con l’acqua e
omicidi extragiudiziali, ma con la sapiente infiltrazione di spie, amalgamandosi, utilizzando il peso stesso del nemico per abbatterlo, e compiere quindi lo smantellamento del jihadismo dal di dentro.
Mi sembra che nel corso di una cena di gala con i registi e gli attori principali del cast, né Philip né io abbiamo parlato granché della parte di Bachmann; abbiamo chiacchierato in termini più generali di cose come la diligenza e l’addestramento degli agenti segreti e il ruolo di pastore che ricade sui funzionari loro superiori. Lascia stare i ricatti, gli ho detto. Lascia stare i macho. Dimentica torture come la privazione del sonno, richiudere le persone in casse, simulare l’esecuzione e altre esagerazioni di questo tipo. Gli agenti migliori — chiamali informatori, spie, infiltrati o come ti pare — devono avere pazienza, intendimento e sincera scrupolosità, predicavo. Mi piace pensare che egli abbia
preso a cuore il mio sermone, ma è più probabile che si sia chiesto se non valeva la pena sfruttare un po’ quell’espressione smancerosa che mi viene naturale quando cerco di far colpo su qualcuno.
È difficile adesso scrivere in modo distaccato della performance di Philip nel ruolo di un uomo disperato di mezza età che va incontro alla rovina, o di come egli ha dato forma alla traiettoria autodistruttiva del suo personaggio. Naturalmente c’era qualcuno a dirigerlo, e il regista Anton Corbijn, eclettico e colto come Philip, è poliedrico e fa molte cose, tutte splendidamente: è un fotografo di fama mondiale, un caposaldo della scena musicale contemporanea, ed è egli stesso il soggetto di un documentario. Il suo primo film, Control, in bianco e nero, è iconico. Al momento sta girando un film su James Dean. Malgrado tutto ciò, comunque, i suoi talenti e la sua creatività, quando li ho visti all’opera,
mi hanno colpito; erano interiorizzati e contavano per lui stesso. Sospetto che egli sarebbe l’ultima persona al mondo a definirsi un drammaturgo empirico, o un eloquente comunicatore della vita interiore di un personaggio. Philip ha dovuto fare dentro di sé quello stesso dialogo, e deve essere stato un dialogo alquanto ossessivo, pieno di domande come: a che punto esatto devo perdere ogni sensazione di moderazione? Oppure: perché insisto nell’affrontare tutto ciò pur sapendo in fondo in fondo che può soltanto finire in tragedia? Ma la tragedia attirava Bachmann come fa la luce di una lampada con un saccheggiatore di relitti, e ha attirato anche Philip.
C’è stato un problema con gli accenti. C’erano attori tedeschi eccellenti che parlavano inglese con accento teutonico. Il comune buonsenso avrebbe imposto, non necessariamente con saggezza, che Philip dovesse
fare altrettanto. Quando l’ho sentito parlare per pochi minuti, ho pensato: “Accidenti!”. Nessun tedesco che conosco parla inglese così. Con la bocca faceva qualcosa di particolare, una specie di broncio. Pareva quasi baciare le sue battute, invece di pronunciarle. Poi, poco alla volta, ha fatto ciò che soltanto gli attori migliori riescono a fare: ha reso la sua voce l’unica voce autentica. L’unica voce particolare, quella dalla quale dipendevi in mezzo a tutte le altre. E ogni volta che usciva di scena, da quel grand’uomo che era, attendevi impaziente che vi tornasse. Lo aspettavi già con un crescente senso di malessere.
Dovremo attendere a lungo prima che arrivi un altro Philip.
Traduzione di Anna Bissanti