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 2014  luglio 26 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA GUERRA DI GAZA HA FATTO MILLE MORTI


REPUBBLICA.IT
GAZA - È scattata alle 8, ora locale, le 7 in Italia, la tregua umanitaria di 12 ore nella Striscia accettata dall’esercito israeliano e da Hamas. Israele ha poi approvato un prolungamento di 4 ore, fino alla mezzanotte locale di oggi (23 ora italiana), rispetto al quale Hamas non si è ancora pronunciato. Mentre in una riunione del gabinetto di sicurezza prevista alle 20.30 verrà anche discussa la possibilità di estendere fino al mattino di domani il cessate il fuoco, così come richiesto dalla diplomazia internazionale. Ma fino a poco prima dell’inizio del cessate il fuoco i combattimenti sono continuati sia a Gaza che in Cisgiordania.
Almeno 81 corpi sono stati recuperati sotto le macerie in diversi quartieri di Gaza nelle ultime ore: la tregua ha permesso ai soccorritori di scavare sotto le case crollate. Il bilancio aggiornato delle vittime palestinesi dall’inizio dell’offensiva - diciannove giorni fa - sale così a oltre mille morti, in maggioranza civili, tra cui moltissimi bambini. I morti israeliani sono saliti invece a 40, quasi tutti militari.
Due operatori dei servizi di emergenza della Mezzaluna Rossa palestinese sono stati uccisi e altri tre sono stati feriti in un attacco contro due ambulanze avvenuto nella sera di venerdì a Beit Hanun, nella Striscia di Gaza: lo hanno reso noto fonti del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr). Il Cicr ha condannato l’attacco ricordando alle parti che prendere di mira ambulanze, ospedali o personale medico costituisce una grave violazione del diritto internazionale.
Gaza, gli scontri prima della tregua di 12 ore
La tensione sale in Cisgiordania. Da un paio di giorni l’allarme non è solo nella Striscia. Scontri si sono registrati anche in Cisgiordania, dove si è assistito a scene di una nuova Intifada a Betlemme, Hebron e Gerusalemme Est. Le forze israeliane hanno aperto il fuoco rispondendo al lancio di proiettili vari. In un villaggio a sud di Betlemme è morto un palestinese di 16 anni, un diciottenne è invece morto a Jalama, nel nord della Cisgiordania. Altri cinque erano morti in altri scontri durante la giornata. Due invece i soldati israeliani uccisi a Gaza. Dopo 18 giorni di offensiva il bilancio delle vittime è di più di mille morti tra i palestinesi e 37 tra i militari israeliani.
Al computo va aggiunto un bracciante di nazionalità thailandese, colpito da una salva di mortaio mentre lavorava in una serra di una cooperativa agricola nel sud dello Stato ebraico e due civili israeliano. Anche nel Sinai, a Rafah, al
confine con la Striscia di Gaza, quattro bambini sono stati uccisi da colpi di mortaio. L’agenzia egiziana Mena scrive, invece, che i bambini morti sono due e due altri sono rimasti feriti assieme ad una donna. Secondo la polizia il colpo era diretto ai militari egiziani nell’area e sarebbe stato sparato dai miliziani islamisti attivi nella penisola egiziana. Gruppi che negli ultimi anni hanno ucciso decine di agenti e soldati.
Intanto l’esercito israeliano ha scoperto 50 tunnel che dalla Striscia di Gaza portano al territorio dello Stato ebraico. Lo fa sapere Ofer Shelah, deputato israeliano del partito centrista Yesh Atid, membro della Commissione difesa e affari esteri. Israele ritiene i tunnel una minaccia strategia, perché i militanti palestinesi li hanno utilizzati per commettere attacchi nel Paese.
Gaza, dentro ai tunnel che minacciano Israele
La trattativa per una tregua più lunga. Ieri Israele ha respinto la proposta del segretario di Stato americano John Kerry di un cessate il fuoco di sette giorni - durante i quali negoziare un’intesa più duratura - accettando solo una tregua di 12 ore, alla scopo di consentire alla popolazione civile palestinese di ottenere cibo ed acqua e alle organizzazioni internazionali di portare aiuti umanitari e rifornire gli ospedali di medicine. La tregua è poi stata confermata anche da Hamas che in precedenza aveva invece accolto positivamente l’idea di Kerry.
Il no a Kerry deciso dal gabinetto di sicurezza presieduto dal primo ministro Benjamin Netanyahu è legato al fatto che Israele intende restare nella Striscia di Gaza e continuare a distruggere i tunnel utilizzati da Hamas per penetrare in territorio israeliano.
Diplomazia al lavoro. La mediazione di Kerry e gli sforzi della diplomazia internazionale continuano. A Parigi si è svolta una riunione cui hanno partecipato il segretario di Stato Usa John Kerry, il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini, quello francese Laurent Fabius, il tedesco Frank-Walter Steinmeier, il britannico Philip Hammond, il turco Ahmet Davutoglu, i mediatori del Qatar e l’Alto rappresentante della politica estera della Ue, Catherine Ashton. "È stata una riunione positiva. Qui siamo tutti per un’estensione del cessate il fuoco a Gaza per 24 ore rinnovabili" ha detto il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius al termine della riunione con sette omologhi, che hanno lanciato un appello perché la tregua prosegua. "Ora la priorità è fermare la perdita di vite umane", ha dichiarato il ministro degli Esteri, Federica Mogherini. L’incontro "è stato molto utile per fare il punto della situazione e coordinare gli sforzi per giungere a un’estensione del cessate il fuoco" ha aggiunto, sottolineando che dovrà essere "sostenibile nel lungo periodo".

PEZZO DI REPUBBLICA.IT DI IERI

GAZA CITY - Israele accetta soltanto di sospendere le ostilità a Gaza per 12 ore a partire dalle 7 di domani ora locale (le 6 in Italia). Ma boccia la proposta di un cessate il fuoco di sette giorni presentata dal segretario di Stato americano John Kerry, precedentemente accolta da Hamas con un’apertura. La tregua di mezza giornata ha lo scopo di consentire alla popolazione civile palestinese di ottenere cibo ed acqua e alle organizzazioni internazionali di portare aiuti umanitari e rifornire gli ospedali di medicine. Anche Hamas ha fatto sapere che in quelle 12 ore non attaccherà il territorio dello Stato ebraico.

Ma intanto gli scontri continuano: due palestinesi, di 16 e 18 anni, sono rimasti uccisi negli scontri con l’esercito israeliano in Cisgiordania, secondo fonti della sicurezza palestinese.

La decisione presa dal gabinetto di sicurezza presieduto dal primo ministro Benjamin Netanyahu di rigettare per ora l’iniziativa Usa è legata al fatto che Israele intende restare nella Striscia di Gaza e continuare a distruggere i tunnel utilizzati da Hamas per penetrare in territorio israeliano. "Stiamo lavorando a una tregua umanitaria di sette giorni" per "dare a entrambe la parti la possibilità di fermare la violenza", ha detto in serata Kerry durante la conferenza stampa con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Non si può rimanere "fermi e inattivi a guardare questo bagno di sangue", ha aggiunto il capo della diplomazia di Washington. E ancora: "Ho parlato con entrambe le parti, Netanyahu ha detto chiaramente che vuole trovare una soluzione. Vorrebbe aiutarci e nei prosimi giorni lo farà, dobbiamo gettare basi per una tregua. Spero di fare altri progressi per il popolo di questa regione che merita la pace". Da parte sua, Ban Ki-moon ha sottolineato che "il popolo di Gaza ha sanguinato abbastanza". "Le soluzioni devono essere basate su tre punti fondamentali: il primo è fermare i combattimenti con una tregua di sette giorni, da estendere poi ulteriormente. Il secondo è iniziare a parlare, perché non c’è una soluzione militare a questo conflitto e tutte le parti devono trovare un sistema per dialogare. Il terzo è la necessità di affrontare le radici di questa crisi", ha ribadito il numero uno del Palazzo di Vetro.

Netto Khaled Meshaal, leader di Hamas: "Serve un cessate il fuoco e la fine del blocco di Israele a Gaza il più presto possibile", ha detto alla Bbc. "Le persone non possono ricevere assistenza sanitaria o andare al lavoro. Perché il popolo di Gaza deve essere punito con questa morte lenta nella più grande prigione del mondo? Questo è un crimine". Secondo il quotidiano al Hayat, dunque, Hamas ha acconsentito, in via di principio, al cessate il fuoco umanitario proposto dal segretario di Stato americano. Secondo il giornale, tuttavia, il movimento islamista ha chiesto garanzie su altre questioni, come il rilascio dei prigionieri palestinesi e l’allargamento dell’area di pesca davanti alle coste di Gaza.

Il piano Usa. Gli Stati Uniti hanno proposto una bozza di accordo che prevede una settimana di stop ai combattimenti, che dovrebbe iniziare nel fine settimana, in coincidenza con la festa dell’Eid al-Fitr che segna la fine del Ramadan, il mese del digiuno. Durante il cessate il fuoco si lavorerebbe a una tregua più duratura e comprensiva. Una volta entrato in vigore l’eventuale cessate il fuoco ampliato, Israele e Hamas dovrebbero sedersi a un tavolo negoziale per definire un’ipotesi di intesa più vasta.

Domani a Parigi si terrà una riunione cui parteciperanno Kerry, il Ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini, quello francese Laurent Fabius, il tedesco Frank-Walter Steinmeier, il britannico Philip Hammond, il turco Ahmet Davutoglu e i mediatori del Qatar.

Tra le varie iniziative c’è quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che ha chiesto l’apertura di un corridoio umanitario a Gaza per consentire l’evacuazione dei feriti e la consegna di medicinali. In un comunicato l’Oms afferma che quattro ospedali della Striscia, compreso l’al Aqsa, sono stati danneggiati durante il conflitto tra Israele e Hamas.

"SIAMO IMPREPARATI" - Il racconto di un soldato israeliano
Razzi su Tel Aviv. Ma stamane, nonostante il lavorio diplomatico per arrivare a una tregua, la frangia più radicale di Hamas ha lanciato almeno tre missili a lunga gittata verso l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Le brigate Ezzedin al Qassam, si legge in un comunicato, "hanno lanciato tre razzi di tipo M75 alle 11:45 locali (le 10:45 in Italia) verso l’aeroporto Ben Gurion". Un’abitazione, inoltre, sarebbe stata colpita da un missile lanciato dalla Striscia di Gaza ad Ashkelon, nel sud di Israele, dove lo scudo Iron Dome ha intercettato una decina di razzi. Ciononostante, Air France e Lufthansa (insieme alle controllate Germanwings, Austrian Airlines, Swiss e Brussels Airlines) hanno annunciato che domani riprenderanno i voli per l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
Gaza, dentro ai tunnel che minacciano Israele
L’offensiva continua. Le forze armate di Israele hanno colpito nella notte 25 obiettivi nella Striscia di Gaza, come riporta un ufficiale militare israeliano citato dal sito internet del giornale Haaretz. "Le forze speciali affermano di avere il pieno controllo dell’area e, dopo alcune notti di combattimenti, i terroristi stanno consegnando le armi. Dopo essere stati nascosti sotto terra per alcuni giorni, stanno uscendo dai tunnel e si stanno arrendendo, mentre nelle case stiamo trovando numerose armi", ha aggiunto l’ufficiale. Nel corso della giornata è stato ucciso un altro soldato israleiano e l’esercito ha comunicato che è morto anche il militare dato per disperso nei giorni scorsi, di cui Hamas aveva rivendicato il rapimento. Sale così a 35 il numero degli effettivi dello Stato ebraico che hanno perso la vita dall’inizio dell’offensiva, l’8 luglio.
Cinque palestinesi morti anche in Cisgiordania. Intanto oggi la tensione è aumentata anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo gli scontri fra dimostranti e reparti dell’esercito a sud di Ramallah. Nelle ultime ventiquattro ore, dicono le autorità sanitarie locali, tre palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani a Hebron e due negli scontri con i coloni a Nablus. I feriti sono oltre un centinaio. Secondo la radio militare i dimostranti, circa diecimila, hanno attaccato i soldati con bottiglie incendiarie e, secondo una testimonianza, qualcuno avrebbe anche sparato. Fatah e altre fazioni palestinesi hanno dichiarato la giornata di oggi "un giorno di rabbia a sostegno di Gaza, sanguinante e assediata" e hanno chiesto di continuare le proteste popolari in Cisgiordania.

Secondo fonti palestinesi, il bilancio delle vittime dall’inizio dell’offensiva israeliana è di 823 morti (compresi, secondo l’ong Oxfam, 170 bambini) e più di 5.200 feriti.

Il dramma degli sfollati. I dati sull’escalation che arrivano dai 34 operatori di Oxfam a Gaza sono sempre più allarmanti: sono infatti oltre 170 mila gli sfollati, molti dei quali costretti a sopravvivere con soli tre litri di acqua al giorno. E se 140 mila hanno trovato un rifugio temporaneo nelle oltre 80 scuole della Striscia disposte per l’accoglienza, per molte famiglie non c’è più un posto sicuro dove ripararsi dagli attacchi perché dopo gli episodi degli ultimi giorni si contano 116 scuole danneggiate dai bombardamenti. Proprio ieri, giorno dell’addio di Shimon Peres alla presidenza israeliana, a Beit Hanun, nel Nord della Striscia, è stata colpita una scuola dell’Unrwa (l’ente dell’Onu per i profughi) in cui avevano trovato riparo centinaia di sfollati. Almeno 17 i morti, tra i quali alcuni bambini e componenti dello staff delle Nazioni Unite, e 150 i feriti. E’ la quarta volta che una struttura dell’Onu viene colpita.
Gaza, la distruzione negli occhi dei palestinesi / il fotoreportage
Manifestazioni ovunque, no di Parigi. Sono diverse le manifestazioni in tutto il mondo contro l’attacco israeliano a Gaza. Oggi, del resto, è il giorno di Al-Quds (Gerusalemme, in arabo), la ricorrenza antisionista istituita nel 1979 dall’ayatollah iraniano Ruhollah Khomeini contro Israele e "l’occupazione israeliana in Palestina" che si celebra ogni anno l’ultimo venerdì del Ramadan. A Teheran decine di migliaia di persone hanno messo al rogo stelle di David, bandiere americane e i volti di Netanyahu e Obama, spesso ritratti con sembianze demoniache. Seyyed Hassan Nasrallah, il leader delle milizie Hezbollah libanesi alleate di Damasco, ha equiparato oggi in una rara apparizione in pubblico a Beirut, la "resistenza" del regime siriano "contro il progetto sionista" a quella dei palestinesi di Gaza. Tensione anche a Berlino, dove a un corteo contro l’offensiva israeliana a Gaza si è unito un gruppo di neonazisti, subito cacciati da alcuni partecipanti. A Parigi, invece, la prefettura ha vietato la manifestazione pro Palestina prevista per domani, dopo i disordini e gli episodi antisemiti di qualche giorno fa.

SUL CORRIERE DI STAMATTINA
«Non è il momento di negoziare una tregua con Hamas», dice al Corriere Efraim Halevy, ex capo del Mossad. Eppure l’autore di «Man in the Shadows» (L’uomo delle ombre) ha riconosciuto in passato l’esigenza di trattare con il movimento fondamentalista. Anzi, ha detto che Israele negozia da anni con Hamas, anche se ammetterlo è «politicamente sconveniente» per entrambi.
Perché non trattare ora?
«In linea di principio credo che ci debba essere un dialogo, ma non in questo momento. Le operazioni devono andare avanti finché Hamas non sarà ridotto in una posizione di chiara inferiorità rispetto a Israele».
Crede che la sospensione dei voli internazionali su Tel Aviv sia stata una vittoria per Hamas?
«La temporanea sospensione dei voli va giudicata sulla base dei risultati finali e, nonostante i razzi di Hamas, Israele ha dimostrato di poter proteggere l’aeroporto. E poi Hamas non ha rivelato le sue vere perdite, il numero di morti tra i miliziani: li sapremo a battaglia conclusa».
Lei ha detto che ci sono nemici peggiori di Hamas: come l’Isis, lo «Stato islamico» attivo in Iraq, che ha iniziato a reclutare anche a Gaza.
«La questione è se Israele abbia interesse o meno a eliminare Hamas. La loro leadership non mi piace affatto, ma ciò non cambia il fatto che siano al potere. Vogliamo che continuino ad esistere ma con forze ridotte: per via dell’Isis, e perché serve un interlocutore a Gaza. Quando l’attuale scontro finirà, verrà il tempo del dialogo».
Viviana Mazza

CRONACA E COMMENTI DI STAMATTINA
FRATTINI SUL CORRIERE

DAL NOSTRO INVIATO GAZA — Il rombo del razzo verso le città israeliane lacera l’aria e sovrasta per qualche secondo il grattare da tosaerba del drone. Le navi al largo della costa cannoneggiano la Striscia di Gaza. La guerra non si è mai fermata, riprende ancora più intensa prima che arrivi l’annuncio ufficiale. Il governo di Benjamin Netanyahu — rivela una fonte israeliana — rifiuta il piano di cessate il fuoco proposto da John Kerry, il segretario di Stato americano. La decisione del Consiglio di sicurezza sarebbe stata unanime. Avrebbero votato sì anche i ministri considerati moderati come Tzipi Livni e Yair Lapid. Non che Khaled Meshaal e gli altri leader di Hamas mostrino entusiasmo per l’idea di una tregua lunga una settimana, a partire da domenica.
La pausa nei combattimenti sarebbe dovuta servire a negoziare un’intesa definitiva. Kerry spera ancora di poter trovare un compromesso, per ora è riuscito a ottenere da Netanyahu una sospensione di 12 ore a partire dalle 7 di oggi. Gli israeliani esigono di poter mantenere le truppe nella fascia larga un chilometro all’interno della Striscia, a nord e a est: i genieri e gli artificieri continuerebbero a cercare e a distruggere i tunnel scavati dai miliziani. Il movimento fondamentalista chiede che vengano fissate delle precondizioni, garantite dalla comunità internazionale: dall’inizio della guerra, diciotto giorni fa, i capi dell’organizzazione ripetono di voler ottenere la fine dell’embargo imposto da Israele nel 2007, quando il Fatah del presidente Abu Mazen ha perso il controllo di Gaza. Le due posizioni sembrano inconciliabili.
Gli ufficiali dell’esercito si sono presentati ieri a casa di Oron Shaul per comunicare ai genitori che il soldato è considerato morto. Il suo corpo non è stato ritrovato con quelli dei sei commilitoni bruciati nel blindato colpito da una granata anticarro nel quartiere di Shijaiya a Gaza. Ma non è più considerato un «disperso». I militari israeliani caduti sono 35. L’ultimo — dicono i portavoce dell’esercito — è stato centrato da un colpo sparato da vicino a una scuola gestita dall’Onu. Israele è stata accusata di aver bombardato giovedì uno di questi istituti, uccidendo 17 civili.
Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, promette in un discorso da Beirut «di sostenere i palestinesi nella loro battaglia». Senza elaborare. Il movimento sciita libanese ha già impegnato il suo esercito irregolare al fianco di Bashar Assad, il presidente siriano, ed è difficile che possa aprire un altro fronte con Israele.
I palestinesi uccisi nell’offensiva sono oltre 830, per la maggior parte civili. Le immagini di distruzione e morte hanno portato la rabbia in Cisgiordania. Nella notte tra giovedì e venerdì in migliaia hanno marciato verso il valico di Qalandia, che separa Ramallah da Gerusalemme. Mohammed al-Araj, 17 anni, è stato ammazzato negli scontri e il suo funerale ieri si è trasformato in un’altra battaglia urbana. Il padre racconta al New York Times che dopo aver visto le foto delle donne e dei bambini ammazzati nella Striscia Mohammed ripeteva «di volersi unire ai combattenti di Gaza».
Sette manifestanti sono stati uccisi nei due giorni di rivolta. Due al posto di blocco di Hawara, verso la città di Nablus, dove una donna è scesa dall’auto e ha sparato. «In aria», secondo la polizia israeliana. Tre sono morti — colpiti da proiettili dell’esercito dicono gli attivisti — negli scontri a Beit Ummar, vicino ad Hebron nel Sud della Cisgiordania, e altri due ragazzi hanno perso la vita durante alcuni scontri nella tarda serata di ieri.
D. F.

FABIO SCUTO SU REPUBBLICA
DAL NOSTRO INVIATO
RAMALLAH
INUN
black friday finito con cinque morti palestinesi e oltre duecento feriti. Il temuto pericolo del “contagio” della crisi nella Striscia è arrivato anche in questi Territori palestinesi. Hebron, Nablus, Jenin, Ramallah. Ma ha anche oltrepassato il Muro di Sicurezza degli israeliani per espandersi nei quartieri arabi di Gerusalemme Est e nella Città Vecchia. Sono state le manifestazioni più imponenti e violente degli ultimi anni, un’escalation di proteste popolari che finora si era appena sentito nella Cisgiordania, che nella rabbia e nella determinazione è forse già una Terza Intifada.
Il check point di Qalandia — il più vicino a Gerusalemme e usato dai palestinesi con permesso di lavoro in Israele — è stato il teatro di una battaglia feroce, andata avanti per ore. Oltre diecimila palestinesi che in corteo hanno sfidato le truppe anti-sommossa nel tentativo di forzare il posto di controllo, che è un vero e proprio fortino. In testa si riconoscevano molti leader di Fatah,
il partito del presidente Abu Mazen. La folla, famiglie, giovani, ragazzini e cani sciolti ha percorso i due chilometri dal campo profughi di Al-Amari gridando slogan a sostegno dei “fratelli” di Gaza, ma dopo le prime granate assordanti in strada sono rimasti solo i ragazzi con le fionde e le kefie. Sono volati sassi e mortaretti, poi le molotov, e in un crescendo sono spuntati i kalashnikov delle Brigate Al Aqsa — il braccio armato di Fatah — che hanno sparato verso la polizia antisommossa israeliana. Ricevendo in cambio, proiettili di gomma, granate stordenti e poi i colpi veri. Le persone cadevano come fossero birilli, due morti e centocinquanta feriti, sessanta con pallottole vere. In una notte si sono riempiti anche gli ospedali di Ramallah e di El Bireh, il presidente Abu Mazen da Amman ha
invitato tutti i palestinesi ad andare negli ospedali per donare sangue. Il tam tam è partito, e spinte dalle notizie di morti e feriti a Qalandia, altre marce sono partite finendo in scontri a Hebron, a Tulkarem e Betlemme. Tre manifestanti sono stati falciati dalle raffiche esplose dai militari a Beit Ummar, un villaggio a due passi da Hebron, ieri pomeriggio. Alle porte di Nablus manifestanti palestinesi e coloni ebrei sono venuti a contatto diretto quando è stata
bersagliata con dei sassi un’auto dei settlers, una donna a bordo dell’auto ha sparato uccidendo un ragazzo di diciotto anni. È intervenuto l’esercito che ha sparato prima lacrimogeni e poi pallottole vere che hanno ferito a morte un giovane e gravemente altri tre.
Battaglia anche attorno alla Spianta delle Moschee, dove la polizia ha vietato ieri l’ingresso ai minori di 50 anni e presente con uno spiegamento impressionante, ha
disperso gruppi giovani che lanciavano sassi e molotov prima di fuggire per i vicoli di una Città Vecchia spettrale, deserta. Con tutti i negozi chiusi per solidarietà con Gaza e disertata dai turisti spaventati dalle violenze. In fiamme una vicina stazione della Polizia.
Si compiace Hamas che la protesta abbia varcato i confini della Striscia e altro sangue sia scorso in Cisgiordania, ed erode il sempre meno convinto sostegno alla leadership moderata dell’Anp. Fa appello ai palestinesi della Cisgiordania perché estendano la lotta contro l’occupazione. «Dobbiamo sfruttare questa opportunità », dice Izzat Risheq dell’Ufficio politico di Hamas, «per accendere fiamme su tutto il territorio, questo è l’inizio della lotta di liberazione ». Le fiamme che piacciono a Hamas sono anche quelle che stanno per mandare in fumo la leadership del presidente Abu Mazen, scavalcato dalla protesta popolare che solidarizza con Hamas che gode adesso di un rispetto che a Ramallah non ha mai avuto.
«Le richieste di Hamas non sono solo condivisibili, sono quelle che avremmo dovuto fare noi», dice con convinzione Yasser Abed Rabbo, ascoltato consigliere di Abu Mazen. Persino la cristiana Hanan Ashrawi — ex ministro della Cultura, esponente di peso del Comitato esecutivo di Fatah — da sempre un nemico acerrimo di Hamas e degli islamisti, non trova nel suo forbito vocabolario da professoressa universitaria parole diverse da «massacro» e «sterminio ». «Due popoli, due Stati», «negoziato», «trattative», al momento fatica a trovarle.

ALIX VAN BUREN SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
ALIX VAN BUREN
«ITEORICI della
“guerra giusta” e gli strateghi militari s’affannano a sbrogliare il dilemma morale che pone la guerra di Gaza. Il primo interrogativo è questo: in che modo combattere un nemico come Hamas? E cioè asserragliato in un territorio sovrappopolato, in un’area tanto stretta? Deve esistere un modo di condurre la battaglia che sia accettabile sotto il profilo morale. È il rovello dei teorici della guerra, in queste ore». Se c’è uno studioso acuto, in grado di misurarsi con le grandi questioni etiche e morali, quello è proprio Michael Walzer: il suo contributo forse più illustre di un’intera vita da filosofo, è l’aver ripescato il concetto di “guerra giusta” (“Guerre giuste e guerre ingiuste”, 1977) senza cedere al pacifismo. Eppure stavolta Walzer, al telefono da Harvard, riguardo alla guerra di
Gaza esita.
Professore Walzer, quali sono le sue perplessità? Perché, come altri intellettuali, lei finora non s’era espresso?
«Beh, io avrei preferito scrivere a guerra conclusa, quando il quadro si fosse chiarito. Ma per rispondere alla sua domanda, dietro all’esitazione c’è un insieme di sentimenti: ci sono lo sbigottimento di fronte a quel che accade, forse l’assuefazione all’infinito ripetersi del conflitto, l’imbarazzo nell’affrontare delicate questioni morali. Quanto a me, io sono terribilmente depresso. Il preludio della guerra resta fumoso, le spiegazioni
offerte da Israele e da Hamas sono contrastanti. E poi, la condotta della guerra resta molto problematica».
A cosa si riferisce in particolare?
«Penso al quesito fondamentale: come si combatte un nemico che ha le caratteristiche di Hamas? Come si conduce una guerra che miete tante vittime civili, e nella quale ogni singola vittima civile si trasforma in una vittoria per Hamas e in una sconfitta per Israele? Un conflitto folle in cui più infliggi
perdite al nemico, e più perdi? La soluzione non è facile. Israele deve rispondere a queste domande. Però, anche i critici di Israele devono indicare un’alternativa, ma la maggior parte di essi
si sottrae».
Lei appunta delle responsabilità?
«Le appunto a entrambe le parti, sia a Hamas sia a Israele. A Hamas in primo luogo e gli addosso la colpa d’aver causato la morte di civili usati come scudi umani, d’aver lanciato razzi nei dintorni delle scuole. Ma tanti altri palestinesi sono rimasti uccisi nei combattimenti, senza che siano serviti da scudo. Perciò attribuisco la responsabilità in secondo luogo a Israele, che ha l’obbligo di ridurre al minimo le perdite fra i civili».
Israele ha lanciato tre operazioni, dal 2008 a oggi, per “spazzare via” Hamas, ognuna con un pesante costo in vite umane. Però nessuna è stata risolutiva. Lei vede una differenza nel conflitto in corso?
«È vero, Hamas resta al suo posto. L’unica differenza notevole è che a ogni cessate il fuoco Hamas si dota di nuovi tunnel, di razzi più numerosi e dalla gittata più lunga. Non resta quasi più angolo di Israele al riparo dai tiri. D’accordo, i razzi non sono particolarmente efficaci in termini balistici, ma se parliamo di tattica, sono estremamente efficienti nel terrorizzare un’intera popolazione, quella israeliana, costretta a correre verso i rifugi. Ma se parliamo di
“spazzare via” Hamas, io non sono tanto sicuro che Netanyahu voglia davvero farlo».
Vale a dire?
«La presenza di Hamas regala a Netanyahu una scusa per non procedere alla creazione di uno Stato palestinese. La vera intenzione del primo ministro israeliano è quella di indebolire Hamas, non di sostituirlo. Infatti, chi governerebbe al suo posto a Gaza? Un movimento ancora più radicale? La Jihad islamica? o magari l’Isis (il gruppo jihadista Stato islamico in Iraq e Siria, ndr )? L’obiettivo di Netanyahu è più limitato: fiaccare Hamas quanto basta per ottenere un paio di anni di quiete».
Fino a due settimane fa Hamas s’era messo da sé alle corde. Isolato, già indebolito, privo di fondi, i suoi appelli ai palestinesi in vista di una terza intifada erano rimasti inascoltati. E adesso invece la sua popolarità aumenta, i palestinesi di Cisgiordania insorgono. Secondo lei, l’operazione di Netanyahu rischia di rivelarsi un
boomerang?
«È proprio così: il premier israeliano sta ottenendo il contrario rispetto a quanto si era prefissato. Ora Hamas si è rafforzato, oltre a Gaza, anche in Cisgiordania. Mentre Fatah, che dovrebbe essere il primo interlocutore di Netanyahu, ne esce indebolito. In più, Israele sta perdendo la battaglia nell’arena dell’opinione pubblica internazionale. Fino a poco fa contava su un sostegno molto ampio. A ogni nuova vittima civile, quell’appoggio evapora».
Lei teme una nuova ondata di antisemitismo?
«In America, dove io mi trovo, questo rischio non c’è. Il sostegno a Israele è forte, per molti motivi. Il pericolo è invece più verosimile da voi, in Europa, dove resistono radici del passato. Nelle manifestazioni di questi giorni l’antisemitismo di vecchio stampo a volte si sovrappone alle proteste indirizzate a Israele. Già si vedono riemergere tracce di nazionalismi nazi-fascisti, o di antiche origini cristiane. Però, malgrado il rischio, io non generalizzerei. Ogni Paese in Europa è diverso dall’altro».
Che cosa teme, allora?
«Piuttosto, in cima alle mie preoccupazioni c’è qualcos’altro: la situazione immediata in Medio Oriente. Lì l’orizzonte è cupissimo, davvero, da qualsiasi angolo lo si osservi».

MOLINARI SULLA STAMPA DI STAMATTINA

S’incendia la Cisgiordania
“Marciamo su Gerusalemme”
Il ruolo del figlio del leader Barghouti. Scontri e sparatorie, 5 morti

Maurizio Molinari

«Siamo qui per marciare verso Gerusalemme». In piedi su un pick-up, con il megafono in mano e una maglietta nera con la scritta «Libertà e dignità nazionale», è Qassam Barghouti a dare inizio alla protesta di Qalandia. È la più imponente dimostrazione anti-israeliana che si svolge in Cisgiordania dalla fine della Seconda Intifada. Qassam, 28 anni, è il figlio maggiore di Marwan, il leader dei Tanzim di Al Fatah condannato a molteplici ergastoli in Israele per essere stato il mandante di attacchi kamikaze che hanno causato centinaia di vittime. Marwan Barghouti è il leader palestinese più popolare nei Territori, la sua effigie è disegnata sul lato palestinese del muro di Qalandia - a fianco a quella di Yasser Arafat - poco lontano da dove Qassam parla alla folla.

«Oggi un bambino di due anni è stato assassinato a Gaza» esordisce, ottenendo il silenzio da un tappeto umano di oltre diecimila anime. «Era troppo piccolo ed è morto prima di comprendere abbastanza ma siamo qui per dimostrare alla gente di Gaza - grida Qassam nel megafono - che Cisgiordania e Gaza sono un solo popolo, uniti contro l’occupazione e contro l’aggressione alla Striscia». Il boato di risposta arriva da un parterre di militanti di Al Fatah, Hamas, Fronte popolare e molte altre sigle della galassia palestinese. Ma tutti innalzano solo i drappi della Palestina e indossano magliette nere con la scritta «Marcia dei 48 mila».
È il nome che duecento attivisti, incluso Qassam, si sono dati per tentare di marciare dal campo profughi Ameri fino alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, provando ad attraversare il check point di Qalandia. Distribuiscono un volantino con le tappe che hanno in mente: un percorso impossibile perché di mezzo ci sono i posti di blocco. Ma ciò che conta per Qassam è «dimostrare solidarietà con Gaza» e anche con Hamas che, nelle richieste per il cessate il fuoco, ha incluso anche la libertà di accesso alla Spianata delle Moschee nella Città Vecchia.
Il luogo è carico di simboli perché Qalandia è il punto di transito più frequentato fra Gerusalemme e Ramallah: se c’è una frontiera dove Israele e Palestina dialogano è questa. Portare qui la rabbia popolare significa far sapere ad Israele che l’intera Cisgiordania è in ebollizione. «Marciamo verso Gerusalemme» grida il giovane Barghouti e i manifestanti ripetono lo slogan, in un crescendo di toni ed emozioni, trasformandolo in canto ritmato. «Se siamo qui in così tanti - dice Qassam dirigendosi da Ameri verso Qalandia - è perché il presidente Abu Mazen ha sostenuto questa marcia e perché c’è un sentimento dilagante di rivolta popolare innescata dal bombardamento israeliano di una scuola dell’Onu a Gaza, con bambini e donne uccise». Attorno a lui c’è una cerchia di fedelissimi e co-sponsor della marcia, tutti fra i 20 e 30 anni, che ripetono «Palestina, siamo una sola nazione». Ma quando il corteo arriva a 300 metri dal check point a prendere l’iniziativa sono gli shabab: ragazzi con il passamontagna che lanciano prima pietre e poi bombe incendiarie contro i soldati israeliani.
Micky Rosenthal, portavoce della polizia, assicura che «ci hanno anche sparato contro». Le forze israeliane rispondono con munizioni vere ed è battaglia: un palestinese viene ucciso, almeno 25 sono i feriti e gli arresti superano quota 150. Gli agenti israeliani feriti sono 29. Incendi ed esplosioni illuminano la notte, l’esercito fa arrivare gli elicotteri e i disordini si estendono a Gerusalemme Est dove prima dell’alba di ieri almeno altri 40 palestinesi vengono arrestati.
Qassam accetta di parlare con «La Stampa». È teso, usa l’espressione «successo» ma tradisce nervosismo per la svolta violenta che non voleva. «La partecipazione massiccia è stata una dimostrazione di forza venuta dal basso, non possiamo vantarci di averli portati tutti noi in strada - dice, parlando al telefono - ma abbiamo creato il vettore per esprimere la rabbia, la furia, che c’è in Cisgiordania per quanto avviene a Gaza». «Non volevamo spargere il sangue né creare martiri - precisa - ma sono stati gli israeliani a sparare per uccidere».
Ora l’interrogativo è se vi saranno altre proteste. La risposta è già in quanto avviene nel venerdì di preghiera: scontri in più centri della Cisgiordania con tre palestinesi uccisi a Beit Ommar e due a Hawara mentre Gerusalemme Est è teatro di scontri in più quartieri, con la Città Vecchia blindata. A Ramallah la protesta torna ai funerali della vittima di Qalandia, Muhammad al-Araj, 17 anni. Il padre Ziad durante le esequie racconta: «Mio figlio ha deciso di andare a Qalandia dopo aver visto le immagini dei morti di Gaza, mi ha mandato un sms dal cellulare scrivendo "Spero di diventare un martire", e lo ha fatto». La domanda a cui Qassam non risponde è se la battaglia di Qalandia può innescare una terza Intifada. Per alcuni «può essere l’inizio di un’esplosione più grande», per altri «la rabbia è un evento a sé, destinato a non avere conseguenze immediate».