Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica 26/7/2014, 26 luglio 2014
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NELL’AUTUNNO
del 1901 la nave “Formidabile”, che riportava Pierre Loti in Francia dalla Cina, tradisce il suo nome: ha bisogno di riparazioni, ed è costretta a uno sfibrante ancoraggio a Saigon. Il marinaioscrittore freme, e decide di fare una gita: o meglio, un pellegrinaggio. Va su una barca a vapore fino a Phnom Penh, attraversa con una chiatta il lago del Tonle Sap, e su un carro trainato da bufali arriva finalmente dopo cinque giorni a Siem Reap. Visita per due giorni le rovine di Angkor, e in altri cinque giorni torna a Saigon. Racconterà poi undici anni dopo le sue due settimane cambogiane, descrivendosi come Un pellegrino ad
Angkor ( Occidente-Oriente, 2012).
L’articolo indeterminativo è appropriato, perché Loti non è stato l’unico a recarsi ad Angkor con un atteggiamento che si potrebbe definire “spirituale”: molti altri seguirono le sue orme nel primo Novecento, arrivando in auto da Saigon o Bangkok su strade aperte nella giungla indocinese. Il poeta Paul Claudel, ad esempio, che ricorderà il Bayon come «uno degli angoli più maledetti e malefici che abbia mai conosciuto», anche se poi rievocherà la sua esperienza cambogiana nel saggio Il poeta e il vaso d’incenso (Edizioni ETS, 2003).
Ma già nel 1296 Chou Ta-kuan, ambasciatore della Cina imperiale, era arrivato ad Angkor e ne aveva descritte le meraviglie nelle
Memorie sui costumi di Cambogia .
A partire dal Cinquecento occasionali visitatori avevano poi raccontato le sorti della città in rovina, abbandonata nel 1431 sotto la spinta delle conquiste thai, e avvolta dalla giungla in un abbraccio mortale. Al 1614 risale una precisa descrizione dei monumenti, dovuta al portoghese Diego do Couto, e al 1623 la più antica planimetria del tempio di Angkor Wat, effettuata da un anonimo pellegrino giapponese. Gli esploratori che arrivarono in Cambogia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con il colonialismo francese, non scoprirono dunque rovine dimenticate: semplicemente, le fecero conoscere a un’Europa largamente ignara della loro esistenza. Primi fra tutti, i racconti del Viaggio nei regni del Siam, di Cambogia
e del Laos del naturalista Henri Mouhot, pubblicato postumo nel 1862, e le fotografie di John Thompson, inserite nel 1867 in una Storia dell’architettura universale . Lentamente Angkor entrò nell’immaginario occidentale, fino a diventare una vera mania commerciale. Nel 1878, i disegni belli e fantasiosi dell’ Album pittoresco dell’architetto Louis Delaporte furono esibiti, insieme a varie opere d’arte khmer, all’Esposizione Universale di Parigi. Mezzo secolo dopo, parti del grande tempio di Angkor Wat furono riprodotte a grandezza naturale alle Esposizioni Coloniali di Marsiglia del 1922 e di Parigi del 1931. E ai nostri giorni i monumenti sono finiti
come sfondo in vari film: da Lord Jim nel 1965, a Tomb Raider nel 2001.
Oggi i pellegrini sacri e riverenti alla Pierre Loti sono stati rimpiazzati da turisti profani e irriverenti. Basta poco, però, per evitare almeno in parte le orde di coloro che ad Angkor, come in qualunque altro luogo, ci vanno al solo scopo di poter dire di esserci andati. Basta, ad esempio, inforcare una bicicletta e andare alle rovine lungo le disselciate strade che le congiungono a Siem Reap, fermandosi a curiosare nelle scuole o nei templi. O a visitare il memoriale alle vittime dei khmer rossi, costituito da un macabro cumulo di teschi e una galleria di crudi dipinti naif, che ricordano l’ossario risorgimentale di Solferino e gli ex-voto alla madonna di Pompei.
Come per le vestigia di altri imperi, anche quelle cambogiane sono state saccheggiate ed esiliate in luoghi improbabili. Le famose statue del Buddha, di cui il re del Siam si appropriò al momento della conquista della Cambogia settentrionale nel 1431,vennero dapprima trasferite ad Ayutthaya e poi a Mandalay, dove tuttora si trovano. E le statue e i bassorilievi rubati da ladri di tombe quali lo scrittore André Malraux, in seguito paradossalmente diventato ministro della Cultura francese, oggi fanno bella mostra di sé in quei centri di ricettazione universale che sono i grandi musei mondiali. Ma ciò che rimane in loco costituisce comunque una delle meraviglie del mondo, e i suoi gioielli della corona
sono il sacro tempio di Angkor Wat, il profano tumulo del Bayon e il memoriale naturale del Ta-Prohm.
Il primo è sicuramente l’attrazione simbolo del paese, tanto da essere rappresentato in effige sulla bandiera e sulle banconote cambogiane, e in un gigantesco modello in scala nel palazzo reale di Bangkok. Fu costruito verso il 1100 come un enorme mandala a rettangoli concentrici, ciascun perimetro dei quali corrisponde a un’ascesa di livello fisico e spirituale. E il passaggio da un livello all’altro rappresenta simbolicamente la salita al mitico monte Meru dalle cinque vette, che gli indù e i buddisti considerano il centro del mondo.
Le gallerie che circondano i vari livelli e il tempio centrale a cinque torri, sono punteggiate di cappelle votive delle due religioni e ricoperte di bassorilievi, rappresentanti scene tratte dal Mahabharata e dal Ramayana . Il più famoso è quello spettacolare, lungo cinquanta metri, della frullatura del mare di latte, in cui 108 angeli ( deva) e demoni ( asura) tirano da parti opposte, per 1000 anni, un serpente gigante ( naga) avvolto attorno a un monte usato come frusta, e producono infine il nettare dell’immortalità. Nel processo si formano le creature che popolano il mare, in un evidente analogo mitologico della nascita della vita dal brodo primordiale.
108 è il numero magico degli indù e dei buddisti, perché attraverso le sue cifre rappresenta l’unione
dell’unità (1), del nulla (0) e del tutto infinito (8). Oltre che nella rappresentazione della frollatura lo si ritrova anche nei grani dei rosari, e nei 54 angeli e 54 demoni che costeggiano i ponti di accesso alla seconda meraviglia di Angkor: il Bayon, centro simbolico e planimetrico della vecchia capitale Angkor Thom.
L’edificio è un ottimo esempio di architettura frattale, in cui la struttura dell’intero si riflette nella struttura delle parti, suggerendo un regresso all’infinito. Ciascuna delle 54 torri del complesso presenta, sui quattro lati, un’immagine
del re Jayavarman VII, che lo
costruì verso il 1200. E le 216 immagini osservano i pellegrini e i
turisti da tutti i lati, senza concedere tregua né agli uni, né agli altri. Questo non impedisce al matematico di osservare, in alcune cappelle, il fallico lingam di Shiva in versione a tre stadi: a sezione quadrata in basso, ottagonale al centro e circolare in alto. Simbolicamente, le tre parti rappresentano la trinità ( trimurti) di Brahma, Vishnu e Shiva. Matematicamente, ricordano invece l’approssimazione indiana di 3,11 al valore di pi greco, ottenuta notando che se si tagliano gli angoli di un quadrato si ottiene un ottagono non regolare quasi equivalente al cerchio inscritto,
appunto.
L’ultimo gioiello di Angkor è il TaProhm, forse il sito più romantico dell’intero complesso. La
Scuola Francese dell’Estremo Oriente, che durante il periodo coloniale intraprese il restauro dei monumenti divorati dalla giungla, decise infatti di non abbattere gli alberi di Ceiba pentandra e di Ficus religiosa che avevano stritolato all’esterno e squassato all’interno i monumenti, creando una singolare specie ibrida tra il vegetale e l’architettonico. Passeggiare tra i giganteschi tronchi che hanno avvolto gli edifici nel loro abbraccio mortale, competendo in grandiosità e potenza con gli architetti del passato, non solo ricorda ai turisti la caducità delle costruzioni umane, ma offre loro un’immagine di come i pellegrini avevano visto le rovine, stringendo per un attimo gli uni e gli altri in un abbraccio vitale.