Ettore Livini, la Repubblica 26/7/2014, 26 luglio 2014
MILANO
LAPALUDE
Italia rischia di inghiottire per la seconda volta la sua (ex) compagnia di bandiera. LASCIANDO
il conto da pagare, un déjà vu, a consumatori e contribuenti. Il copione oggi è lo stesso del 2008: c’è un pretendente — ieri Air France, ora Etihad — pronta a prendere la cloche di Alitalia, malgrado la società sia una macchina mangia-soldi. Gli emiri, come i francesi, vogliono mettere quattrini, ampliare le rotte e mantenere la livrea tricolore.
Tutti e due però hanno fatto i conti senza l’oste: l’Italia e gli italiani. O meglio quel mix di interventismo politico, corporazioni, capitalismo di relazione, liturgie sindacali, burocrazia e autolesionismo di cui la telenovela Alitalia è una delle sintesi più riuscite. Un cocktail micidiale che ha affossato il Belpaese al 65esimo posto della classifica Doing Business della Banca Mondiale dopo Botwana, Bulgaria e Tonga.
Sei anni fa Parigi — esasperata — ha tolto il disturbo girando la bolletta, 4 miliardi, ai contribuenti. Oggi rischiamo il bis. Le sabbie mobili tricolori, efficientissime quando c’è in ballo il destino della compagnia, sono tornate in azione. La pazienza di Etihad dopo una serie di “penultimatum” («l’accordo è alla stretta finale», festeggiava ad aprile il ministro Maurizio Lupi) è al limite. Il rischio concreto è che alla fine Alitalia sia costretta a portare i libri in tribunale. Ecco come ci sta riuscendo questo
ennesimo miracolo italiano.
CAPITALISTI SENZA CAPITALI
Se Alitalia è tornata al punto di sei anni fa (senza soldi e sull’orlo del fallimento) la colpa — oltre che della crisi — è dei guai atavici dell’imprenditoria di casa nostra, ricca più di relazioni che di soldi. La cordata di patrioti voluta da un Silvio Berlusconi a caccia di consensi elettorali e messa assieme da IntesaSanPaolo — finanziando con generosità i suoi componenti
— si è quasi tutta sciolta come neve al sole.
La compagnia aveva pochi euro in cassa quando è decollata e ha continuato a bruciarne al ritmo di 25 milioni al giorno. L’unione, nel mondo degli affari, fa la forza.
I cda del gruppo invece si sono spesso trasformati in rissose assemblee di condominio per questioni di poltrone e visibilità. Protagonisti a volte soci con partecipazioni da prefisso telefonico. Alitalia ha cambiato tre amministratori delegati
in cinque anni senza vedere un euro di utile. E oggi che servono altri soldi, con buona pace dell’italianità, l’unica soluzione, palude permettendo, è il socio straniero.
STATO CONTRO STATO
È l’ultima novità del dramma Alitalia. Quella — dicono i bene informati — che sta lasciando a bocca aperta i vertici di Etihad. Nel 2008, alla vigilia delle urne, il futuro della società aveva spaccato in due i palazzi romani. Questa volta sembrava che la politica avesse fatto una scelta chiara. A ottobre, con gli emiri già in anticamera, Enrico Letta ha convinto le Poste (controllate al 100% dal Tesoro) a mettere una toppa da 75 milioni ai conti del vettore romano. La cessione ad Abu Dhabi — dopo mesi di difficilissimi negoziati con il governo in cabina di regia — sembrava a un passo. A questo punto però è scattato il derby Stato contro Stato. Francesco Caio, neo ad delle Poste nominato da Matteo Renzi, ha alzato la mano facendo presente che, a queste condizioni, lui non ci stava. In Etihad sono saltati sulla sedia: «Come, proprio la società pubblica si mette contro il suo azionista ora che siamo al traguardo?». Niente di strano, dicono i guru del libero mercato, è un segno di maturità e indipendenza del management. Ma per gli arabi è come se Fabio Grosso avesse tirato fuori di proposito il rigore decisivo della finale dei Mondiali di calcio 2006. In un Paese dove i treni ad alta velocità non arrivano nei principali aeroporti nazionali, però, tutto è davvero possibile.
LA DIASPORA SINDACALE
Incomprensibili, visti dal Golfo, sono pure i balletti sindacali di queste ultime ore. L’operazione Etihad era partita con 2.500 esuberi, poi ridotti a 2.250, quindi sforbiciati a 1.600 circa di cui più di 600 riassorbiti (anche se non è chiaro come) in aziende esterne e 900 in mobilità affidati ai contratti di ricollocamento. Un puzzle completato dal nuovo contratto nazionale di settore e da un piano per altri 31 milioni di risparmi. In teoria tutti i pezzi sono andati a posto. In realtà volano gli stracci. La Cgil non ha ratificato gli esuberi e ne contesta la validità. La Uil è sul piede di guerra contro il referendum Cgil e Cisl sui risparmi aziendali. L’azienda dice che va tutto bene. I piloti e gli assistenti di volo hanno preso carta e penna per scrivere al numero uno di Etihad (l’ex rugbista James Hogan) protestando sui criteri di rappresentatività. Lui non sa più che pesci pigliare. «Stanno ballando sul Titanic», dice un uomo vicino agli arabi. La loro speranza forse — in fondo è già successo nel 2008 — è che alla fine paghi Pantalone.
LA GIUNGLA DEI TRIBUNALI
A complicare il quadro Alitalia, sul fronte della palude, c’è un altro dei mali cronici del Belpaese: i ritmi da bradipo della giustizia, specie quella civile. Le Poste si sono di traverso per un motivo semplice: non vogliono farsi carico dei contenziosi amministrativi del passato. Oltre 2.700 cause con rischi potenziali di 470 milioni tra cui quelle con Windjet, Gec e l’erario. In Francia queste vertenze si sarebbero risolte in 330 giorni. In Spagna in meno di 18 mesi. L’Italia fa storia a sè. Un processo civile dura in media 1.210 giorni, quasi quattro anni. Caio non ha intenzione di pagare per questione aperte nel 2011, quando la sua società non aveva niente a che fare con la compagnia. Magari alla fine cederà. Magari Etihad e Alitalia arriveranno ai fiori d’arancio e la loro alleanza potrà decollare. Auguri. A terra, nella palude, rimarremo noi italiani.