Federico Geremicca, La Stampa 25/7/2014, 25 luglio 2014
IL PARTITO CHE NON VUOLE CAMBIARE NIENTE
Tutti al Quirinale. Sì, proprio da quel presidente che Beppe Grillo irride da anni (e per il quale voleva l’impeachment) e che la Lega considera da tempo un prevaricatore dei limiti impostigli dalla Costituzione. Ma contraddirsi non è un problema, se la “marcia sul Colle” è il finale giudicato migliore per una giornata ad altissima tensione politica: una giornata pirotecnica, che ha però forse messo definitivamente in chiaro intorno a cosa infuria una battaglia parlamentare che non è certo conclusa con le tensioni di ieri.
La riforma del bicameralismo paritario - che proprio Giorgio Napolitano ha definito un’«anomalia» che si tenta di correggere da anni - è solo lo schermo, il paravento, dietro il quale è in corso uno scontro senza quartiere che ha ben altra posta in palio: appare sempre più evidente, infatti, che la «resistenza» che infuria nelle aule parlamentari non è semplicemente al progetto di trasformazione del Senato, quanto al «renzismo» tout court.
Nel mirino ci sono, dichiaratamente, un modo di intendere la politica, una filosofia di governo e metodi per realizzarla (la velocità, la fermezza) che - secondo gli oppositori del premier - è sempre più urgente fermare. Prima che sia troppo tardi.
Se dopo la vendita delle auto blu, il tetto agli stipendi dei manager, gli 80 euro e l’annunciata riforma della Pubblica amministrazione (che sono già valse al Pd di Renzi il 40% alle elezioni europee) il governo riuscisse anche nella riforma del Senato, questo dimostrerebbe semplicemente che molte delle cose annunciate per anni e mai realizzate, si potevano invece fare: insopportabile per un sistema politico che ha paradossalmente fatto del «mal comune» dell’inefficienza un «mezzo gaudio», un punto di forza unificante. «In Italia c’è un gruppo di persone che dice no da sempre - ha commentato ieri il premier -. E noi, senza urlare, diciamo invece sì».
Quasi 8mila emendamenti - tanti sono quelli depositati al Senato - non testimoniano della volontà di migliorare e arricchire la riforma in discussione: rappresentano - al contrario - il preludio alla paralisi, rendendo quasi inevitabile il ricorso al contingentamento dei tempi della discussione (e magari era proprio questo l’obiettivo delle opposizioni, così da poter poi gridare al golpe). Inoltre, caricare di tanta drammaticità la prima delle quattro letture cui dovrà esser sottoposta la riforma, è incomprensibile: a maggior ragione dopo l’annuncio fatto ieri dal ministro Boschi che il testo sarà comunque proposto all’approvazione dei cittadini attraverso un referendum.
Né è più convincente l’obiezione, autorevolmente esposta, secondo la quale in materia di riforme - quella del Parlamento, quella della forma di governo e quella elettorale - ci sarebbe ancora molto da riflettere e approfondire. La prima Commissione che si occupò di tale materia fu presieduta dal liberale Aldo Bozzi e vide la luce nel 1983: cioè 31 anni fa. Dieci anni dopo, tra il ’93 e il ‘94, ci provarono Ciriaco De Mita e Nile Iotti. Nel 1997 si cimentò - fallendo anch’egli - Massimo D’Alema. In qualche archivio della Camera dei Deputati giacciono piramidi di proposte, schemi, raffronti con i sistemi in vigore negli altri Paesi e articolati di legge: che siano necessari ulteriori approfondimenti non vogliamo crederlo, per il rispetto che portiamo all’intelligenza dei nostri parlamentari e dei cittadini.
Bisogna semplicemente impedire che si decida: perché per il premier questo rappresenterebbe un successo troppo importante, oltre che la conferma che, volendo, si può. Poi, certo, sullo sfondo si muovono obiettivi minori e dinamiche non sempre controllabili: la richiesta di rassicurazioni sulla legge elettorale, la guerra in diversi partiti (M5S compreso) tra falchi e colombe, lo scontro interno al Pd animato dagli «sconfitti» dal premier. Ma è Matteo Renzi il bersaglio grosso: questo sasso nello stagno capace con i suoi cerchi concentrici di smuovere le acque e mettere in discussione privilegi non più difendibili.
In una giornata tesa come quella di ieri, per esempio, hanno fatto impressione una protesta e un allarme. La protesta è quella dei funzionari e dei commessi della Camera scesi sul piede di guerra perché anche a loro è stato fissato un tetto di 240mila euro (duecentoquarantamila) allo stipendio; l’allarme è quello lanciato dal Csm, secondo il quale con il pensionamento dei magistrati riportato a 70 anni invece che a 75, si rischierebbe la paralisi. La paralisi, già: di giorno, indicata da molti come il nemico da battere; di notte, gattopardescamente perseguita affinché cambi poco. E meglio ancora se non cambia niente...
Federico Geremicca, La Stampa 25/7/2014