Massimo Minella, la Repubblica 25/7/2014, 25 luglio 2014
GENOVA, COSÌ L’ACCIAIO DELLA CONCORDIA TORNERÀ A NAVIGARE
GENOVA.
Il cantiere da cento milioni di euro aprirà fra due giorni, quando il profilo della Concordia sarà già nitido al largo del porto di Genova. E allora niente sarà più come prima, perché dalla demolizione di una nave questa città martoriata dalla crisi prova a risollevarsi puntando su ciò che gli riesce meglio, fare business dal mare.
Stavolta si parte da una cosa che mai nessuno avrebbe voluto fare, demolire una nave naufragata due anni e mezzo fa con il suo carico di vittime (32). Ma se si tratta di farla a pezzi, questa Concordia, allora conviene attrezzarsi per il meglio, rimettendo Genova in un circuito che oggi è esclusiva soltanto dell’Asia (Pakistan, Bangladesh e Cina) e in parte della Turchia e dell’Est Europeo. Qui, nei primi quattro mesi dell’anno, sono state avviate a demolizione 280 navi, spesso con un dumping ambientale e un costo bassissimo della manodopera che fanno da sempre la differenza dal punto di vista economico.
La Concordia, invece, sarà la prima nave demolita nel rispetto della Convenzione di Hong Kong del 2009, finora recepita soltanto da cinque Paesi (fra cui l’Italia). «Genova ha vinto perché ha saputo mettere in campo spazi, conoscenze, tecnologie, certificazioni che nessun altro aveva — spiega il presidente dell’autorità portuale genovese Luigi Merlo, regista dell’operazione — Ora possiamo rientrare in questo settore dando vita a un polo dell’Alto Tirreno, lavorando anche con Piombino che si candida alla demolizione di navi militari».
Nell’arco di una manciata di mesi, infatti, Genova ha messo in campo un’offerta che ha sbaragliato la concorrenza nazionale ed estera e ora si appresta a trasformare il suo porto in un grande cantiere suddiviso su tre poli, tra lo scalo di Prà-Voltri e quello di Sampierdarena. Ventidue i mesi di lavoro, i primi quattro a Prà-Voltri, attaccati alla diga foranea che protegge il terminal del Vte, per le operazioni di stripping , rimozione degli arredi e di tutto il materiale non ferroso. Qui saliranno a bordo i camalli della Compagnia Unica (70 avviamenti al giorno) e una squadra di centinaia di tecnici e professionisti che staccheranno un pezzetto alla volta tutto quanto servirà a trasformare il relitto in un guscio d’acciaio.
Prima della fine dell’anno la Concordia verrà trasferita a Sampierdarena, dove inizieranno le operazioni vere e proprie di demolizione. La nave attraccherà prima alla banchina ex Superbacino (ironia della sorte, qui c’era un enorme bacino galleggiante che non ha mai funzionato e che, svenduto ai turchi per un milione di euro negli anni Novanta, oggi continua a lavorare alla grande) e poi si trasferirà dentro al bacino di carenaggio numero 4, dove avverranno le operazioni conclusive di smantellamento a secco. 53 le aziende coinvolte, più di mille i lavoratori in servizio durante le fasi di demolizione, quando i ponti verranno sezionati e sistemati nei cantieri di terra.
Le oltre 50mila tonnellate di ferro che verranno recuperate dalla demolizione saranno smaltite, avviate nelle fonderie per trovare nuova vita. Perché questo è il destino dell’acciaio servito per costruire la Costa Concordia. Soltanto il 20 per cento di quello che oggi sta navigando verso Genova verrà definitivamente scartato e avviato nelle discariche. Il rimanente 80 sarà riciclato. Si riutilizzerà soprattutto acciaio, ma anche rame inserito nei cavi elettrici, arredi non danneggiati, oli esausti che si potranno essere “rigenerare”.
Sarà però il ferro della Concordia a tornare protagonista. Il consorzio che si è aggiudicato la demolizione, formato dalla San Giorgio del Porto e dalla Saipem, ha già firmato un accordo di take off ( impegno all’acquisto a determinate condizioni) con due aziende siderurgiche, la Duferco e la Feralpi. I due gruppi si sono impegnati nei mesi scorsi a ritirare l’acciaio proveniente dalla demolizione, ma San Giorgio e Saipem, se lo vorranno, potranno anche fare un’asta, se qualcuno riterrà di offrire di più di 270 euro a tonnellata proposte da Duferco e Feralpi (al prezzo di mercato fissato dalla Camera di Commercio di Milano). Alla fine dalla vendita si potrà incassare una quota di 12-13 milioni di euro e l’acciaio fuso dentro ai forni elettrici tornerà a vivere sotto forma di travi e di tondini per cemento armato utilizzati nell’edilizia, di lamiere per il mercato dell’auto e degli elettrodomestici, ma anche per la costruzione navale. Insomma, acciaio che tornerà in acqua per riprendere a navigare.
Massimo Minella, la Repubblica 25/7/2014