Filippo Ceccarelli, la Repubblica 25/7/2014, 25 luglio 2014
QUEI MAXI STIPENDI IN ODOR DI PRIVILEGIO CHE GIÀ INDIGNAVANO LA MALFA E PERTINI
Come spesso accade, anche a proposito dei mega stipendi dei vertici e più in generale dei dipendenti di Camera e Senato, tutto è già più o meno successo, anche se rapidamente e colpevolmente, forse, dimenticato.
Si ricorda quindi che nell’ormai remoto, anzi addirittura archeologico 1975, mese di ottobre, l’allora vicepresidente del Consiglio Ugo La Malfa piantò una grana delle sue su quella che ai tempi era detta «giungla retributiva», o disparità salariale. Se proprio il Parlamento si colloca «a capofila della degenerazione del più assurdo privilegio» tuonò La Malfa, sarebbe stato impossibile per il governo chiedere sacrifici alle categorie meno favorite.
Alla presidenza della Camera c’era Sandro Pertini, che su pressione dei capigruppo dapprima respinse sdegnato la sventola del leader repubblicano. Ma poi, essendo un uomo dall’animo retto, ma nel contempo assai mutevole, e avendo passato una notte in bianco per l’angoscia, scrisse a La Malfa, rendendola pubblica, una lettera straziante: «Hai ragione tu... e adesso debbo sostenere l’intollerabile e sciocca parte dell’avvocato d’ufficio di una causa sballata che ho solo ereditato... Sento crollare mezzo secolo di una vita politica onesta. Che disperazione nell’animo mio, non ne posso più!» proseguiva.
E quindi, non senza aver fatto notare a quell’altro grande spirito laico che avendo rinunciato a una certa indennità di 200 mila lire guadagnava «meno di una dattilografa e di un commesso », Pertini presentò le dimissioni. Fu una crisi rapida e tempestosa. Il presidente Leone, il premier Moro, il segretario del Psi De Martino e tutti i deputati lo scongiurarono di restare, e il futuro presidente della Repubblica restò alla guida di Montecitorio.
Per la verità la questione investiva anche gli stipendi dei dipendenti e degli alti burocrati del Senato. Ma lì c’era un democristiano, Spagnolli, che nello stile anguillesco del suo partito scansò abilmente la grana, cioè fece finta di nulla, quindi rimase zitto, o meglio affidò la faccenda a una sola fantastica e icastica dichiarazione che in linea di massima s’adatta come meglio non si potrebbe agli impicci del Palazzo: «In momenti del genere, chi ha più prudenza, l’adoperi». In che senso, però, si rischia di capirlo purtroppo con quarant’anni di ritardo sulla tabella del buon senso.
Tutto questo per dire che i problemi, le richieste e le proteste di oggi sono figlie e nipoti della storia degli organi costituzionali. I quali, nel 1980, da un lato superbamente rifiutarono che la Corte dei Conti ficcasse il naso nella loro assai facoltosa politica retributiva, dall’altro accettarono di veder pubblicati sui giornali le prime tabelle con degli stipendi d’oro che Vittorio Gorresio equiparò a quelli dei calciatori di serie A.
Due anni dopo, grazie all’opera di una compiacente commissione presieduta dal socialdemocratico Romita, le indennità crebbero con percentuali che dal 200 arrivavano anche al 1.400 per cento. Seguirono altri aumenti, seguirono altre tabelle, dal commesso appena assunto al Segretario Generale passando per vicesegretari, consiglieri, documentaristi, elettricisti, segretarie, commessi e barbieri, questi ultimi sempre molto invidiati e quindi additati al pubblico ludibrio da quotidiani e rotocalchi.
Nel frattempo, la vita sindacale di Camera e Senato si sviluppava pacificamente e proficuamente secondo articolazioni generate dalla presenza di decine di sindacatini. Nel 1985, a Palazzo Madama, si segnalò la prima e forse unica e comunque assai gentile forma di protesta, per così dire, per cui senza abbandonare il posto di lavoro i «dimostranti» si limitarono a sfoggiare un fiore all’occhiello.
E nel corso degli anni, fatte salve la bravura e la dedizione di tanti, vennero aumenti, scatti, incentivi, e adeguamenti, risarcimenti, riconoscimenti, e anzianità pregresse, scale mobili superstiti, opportunità di squagliarsela al meglio quanto prima, e bienni integrativi, contributi figurativi e ogni ben di dio. Ma sempre e in ogni caso senza alcun riscontro con quanto avveniva fuori dal Palazzo, anzi dai due Palazzi che oltretutto gareggiavano fra loro sui trattamenti arrecandosi reciproci e doviziosi vantaggi.
Ogni tanto, forse a seguire misteriosi algoritmi, qualcuno - giornalisti, moralisti, autori di pasquinate, blogger, facebook, portaborse precari - sollevava lo scandalo dei privilegi. Con la necessaria approssimazione si può ragionevolmente spiegare tutto ciò come il frutto di un patto sciagurato: più il Parlamento perdeva peso politico e più chi lavorava e comandava lì dentro vinceva il gran premio della cuccagna. Adesso, pare, basta. Pertini e La Malfa, da lassù, vigileranno. Ma anche Spagnolli con la sua ineffabile e malintesa prudenza.
Filippo Ceccarelli, la Repubblica 25/7/2014