Paolo Colonnello, La Stampa 25/7/2014, 25 luglio 2014
MORÌ DI CANCRO AL POLMONE UN MILIONE A MOGLIE E FIGLI
Certo, non si tratta dei 23 miliardi di euro cui è stata condannata la Reynolds American Tobacco per risarcire la moglie di Michael Jhonson, morto di cancro ai polmoni dopo aver fumato per 20 anni tre pacchetti di sigarette al giorno. Ma nel suo piccolo anche la sentenza firmata dal giudice della decima sezione civile del tribunale di Milano, Stefania Illarietti, è destinata a fare storia. L’ex Ente Tabacchi Italia spa, oggi British American Tobacco Italia Spa, ovvero i Monopoli di Stato, è stata infatti condannata a risarcire con quasi un milione di euro i familiari di un impiegato milanese morto di tumore polmonare dopo aver fumato dalla metà degli anni ’60 fino al 2004 circa un milione di sigarette. In pratica un euro a sigaretta fumata.
La causa iscritta a ruolo nel 2009 e decisa l’11 luglio scorso, apre la strada potenzialmente a migliaia di ricorsi sebbene si tratti solo di un primo grado e dunque riformabile in appello. La sentenza è però immediatamente esecutiva e riconosce, oltre al danno parentale, ovvero la perdita di un famigliare, perfino il risarcimento di 3.548 euro per il funerale della vittima nonché 18 mila euro di spese legali agli avvocati Carlo Gasparro e Angelo Cardarella, «tenuto conto del valore della causa e dello sforzo defensionale impiegato» nella più classica delle battaglie tra Davide e Golia, dove i giganti erano, come sempre, quelli del tabacco. In questo caso però la Philip Morris, che pure era stata citata tra i convenuti, non è stata ritenuta responsabile in quanto semplice licenziataria ma non produttrice e distributrice delle Marlboro che fin dall’età di 15 anni il signor Antonio Scippa, originario di Napoli, aveva consumato nell’ordine di due pacchetti al giorno. A far la differenza con le precedenti cause per fumo che si erano perse nelle more degli appelli e dei ricorsi, è questa volta una sentenza della Cassazione del 2009 con cui si è riconosciuto come la produzione e la commercializzazione di sigarette e di tabacchi in genere sia da considerarsi «attività pericolosa». «Quindi era importante spiegare il nesso causale tra la morte per tumore del nostro assistito e il fumo», dice l’avvocato Gasparro, tra le altre cose responsabile del Codacons di Pavia. E per farlo gli avvocati si sono rivolti a fior di consulenti che non hanno avuto difficoltà a dimostrare come il tumore al polmone dello Scippa, era da ricondurre direttamente al fumo. L’altra discriminante è stata la legge del 1991 con la quale è divenuto obbligatorio per i produttori di sigarette fornire informazioni sulla nocività del fumo attivo e passivo. Il giudice infatti, per decidere, ha distinto due fasi della vita del signor Scippa: prima del ’91, quando poteva non essere consapevole dei danni mortali derivati dal fumo e dopo quella data. Concludendo che l’uomo, avendo iniziato a fumare a 15 anni, aveva passato più tempo della sua vita ad accendere sigarette senza una corretta informazione (ma anzi, spinto dalle pubblicità a identificarsi con un’immagine di successo) che gli anni trascorsi dopo il 1991 fino al 2004, nella quasi certezza che avrebbe potuto ammalarsi, come poi è puntualmente avvenuto. Inoltre, i periti hanno dimostrato che il tumore aveva già iniziato svilupparsi prima del ’91 e dunque, se anche avesse smesso, sarebbe morto ugualmente nel novembre del 2004, all’età di appena 64 anni. Ciò nonostante, il giudice ha ritenuto di poter riconoscere alla vittima un «concorso di colpa» per la sua morte di tabagista accanito pari al 20 per cento. Ma il resto se lo sono dovuti accollare i Monopoli del tabacco che producono e commercializzano sigarette riempite di additivi che provocano «scientificamente dipendenza e assuefazione».
Paolo Colonnello, La Stampa 25/7/2014